Datemi un sorriso e solleverò il mondo, datemi speranza e il mondo sarà migliore

Gennaro Matino (October 03, 2018)
Questa è la settimana di San Francesco. Dopo vent’anni la Campania sarà ad Assisi il 3-4 ottobre, a nome delle regioni d’Italia, per riaccendere la lampada votiva che sarà alimentata dall’olio “delle vostre mani, delle vostre fatiche, delle vostre terre, da quella Terra dei Fuochi, da quelle terre che subiscono la ferita dell’uomo”. Oltre 200 sindaci arriveranno nella città umbra, circa 10 mila pellegrini da ogni parte della Campania.

Ci andrà la Chiesa nostrana con vescovi e apparati e come vorrei che lo spirito d’Assisi, non quello rubato a slogan melliflui e preconfezionati, ma quello originato dalla strategia coraggiosa di Vangelo, quella che ha fatto del Serafico l’uomo della rivoluzione cristiana, fasciasse di significato le scelte della comunità ecclesiale, la sua visione, la sua improcrastinabile conversione pastorale. Francesco a ragione viene considerato il santo più rappresentativo del millennio passato, tanto che perfino un giornale profondamente laico come il Times, quando ha dovuto scegliere a chi dedicare la copertina per indicare l’uomo del millennio, non ha avuto dubbi nell’attribuirla a Francesco.

Certo la sua storia è intimamente rappresentata dalla scelta di abbracciare sorella povertà donando sé stesso, più che le sue sostanze, agli ultimi. Ma in realtà la sua profonda conversione è intimamente linguistica, rivoluzionaria nei segni e nelle parole che poco erano frequentate nella Chiesa del tempo e probabilmente anche nella nostra. Francesco davvero annunciava il Vangelo come una bella notizia, esigente, impegnativa, trasformante, ma una buona nuova con tutto il coraggio dell’allegria necessaria per convincere i fratelli che la gioia non è peccato.

La rivoluzione che Francesco portò in quel mondo di papi e re, in lotta tra loro per stabilire chi fosse il primo e il più grande, era una rivoluzione di senso, di passaggio di parola che pur considerando i dolori della vita, le miserie e le sofferenze, l’enorme ingiustizia per il divario tra chi aveva tutto e chi non aveva niente, proponeva il sorriso come rimedio, uno stile che riconsegnasse l’uomo ad una visione positiva della vita.

Troppo spesso abbiamo permesso che il cristianesimo, soprattutto ai giovani, arrivasse come la religione dei vinti, che induce alla tristezza, alla rassegnazione, alle rinunce in attesa di una gioia futura che sembra rinnegare la felicità sulla terra, quasi che il vivere stesso fosse un peccato da cui redimersi. In molti, e non solo i giovani, erroneamente si sentono chiamati a subire i soprusi, a volgere l’altra guancia, non per spezzare le catene dell’odio, ma perché, come spesso si dice, il Signore ti mette alla prova, come se bisognasse per forza soffrire per conquistare il cielo e non bastassero da sole le pene che la vita già ti riserva.

Troppo spesso il linguaggio della Chiesa, e non solo quello verbale, è pesante, rischioso di pene, di castighi, di paura. Non è quello della gioia che la Parola sussurra: “Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri! La gioia del cuore è la vita dell’uomo, l’allegria di un uomo è lunga vita” (Sir.30,22-23). Chi entra in una chiesa a trovare conforto è più facile che si trovi in un ambiente buio tra il freddo dei marmi e l’odore acre dei fiori che richiamano alla mente il cimitero. Ho trovato scritto su un foglietto domenicale di una parrocchia una riflessione che condivido appieno: “È un miracolo che il cristianesimo esista ancora, nonostante i cristiani".

Nonostante le loro facce appese, i loro discorsi complicati, i loro problemi morali, i loro canoni e le loro regole. Chissà, mio Dio, cosa farebbe il tuo Figlio, se decidesse di tornare sulla terra per una nuova incarnazione. Probabilmente si terrebbe lontano dalle chiese troppo glaciali, dalle parrocchie troppo formali, da quelle prediche in cui il vangelo sembra diventato geometria e aritmetica, e il regno di Dio un problema da risolvere con stecca e squadra e l’ausilio di un goniometro”. “ Dove diavolo nascondete la vostra gioia?”, chiedeva Georges Bernanos ai cristiani.

Certo, è difficile vivere nella gioia quando quotidianamente siamo travolti da uno spaventoso tsunami di cattive notizie, difficile chiedersi come possa vincere l’allegria quando nel mondo i bambini muoiono di fame, dove ogni giorno i volti di migliaia di persone sono inondati di lacrime. In noi stessi non mancano motivi di tristezza per le difficoltà economiche, per la salute malferma, per le nostre precarie relazioni familiari, per le nostre sconfitte. Tuttavia, una fede senza allegria, senza speranza è senza futuro, è senza Dio, cartastraccia per coprire piaghe senza guarire. Datemi un sorriso e solleverò il mondo, datemi speranza e il mondo sarà migliore.
 

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