Articles by: Marina Melchionda

Dopo l'intervista di qualche giorno fa,  sicuri di farvi una cosa gradita, vi  proponiamo ora la registrazione audio.  Lorenzo  parla del suo amore per New York e per gli italoamericani, della sua musica, dell'importanza che ha avuto Internet per lui, e di  Obama. L'ascolto è accompagnato da un omaggio collettivo: una selezione di 100 foto scattate dai suoi fan e messe a disposizione su flickr.com

Dicono che il tuo nome d’arte, Jovanotti, viene da Joe Vanotti, un nome che sembra italo-americano. Quando e come mai l’hai scelto? 

“Un po’ per caso. Poi come spesso succede con le cose fatte un po’ con leggerezza ti rimangono attaccate per tutta la vita. Ma ne sono contento, perchè è un nome che mi ha portato davvero molta fortuna. Tra l’altro è vero quello che dici: la mia scelta era Joe Vanotti. Chiamai al telefono il grafico che stava preparando la copertina del mio primo disco per comunicarglielo e per errore lui scrisse “Jovanotti”. Quando vidi la copertina stampata, poi, decisi di lasciarlo cosi. Mi piaceva.”

 Che rapporto hai con gli italiani all’estero ed in particolare con la comunità italo-americana?

“Come tutti gli italiani, o quasi tutti, avevo anche io un parente in America. Mia zia era emigrata in Canada e viveva a Montreal. Quando ero bambino questa zia per me era un mito, mi mandava tanti regali e, soprattutto, le scarpe da ginnastica “americane”. Le aspettavo sempre! Non ci vedevamo spesso, ma mia madre, mia nonna, andavano a trovarla di tanto in tanto. Quindi ho sempre sentito questo legame forte con l’America, rappresentava il mio secondo Paese.
Il mio amore per questa terra si è poi rafforzato quando ho deciso di intraprendere la carriera artistica e trovai nella musica americana un importante punto di riferimento.”
 
Con i concerti di New York del 18 e 19 febbraio farai il tuo debutto negli Stati Uniti. Come mai hai scelto proprio questa città?
“Pur essendo il mio primo concerto qui, la sento come “la mia citta’”. Sento di appartenerle e per questo vengo qui almeno almeno una volta all’anno. L’ho visitata per la prima volta nel 1989 e quando scesi da quell’aereo mi sentii per la prima volta a casa. Ero arrivato in un posto che già conoscevo bene, pur non avendolo mai visitato. Ero cresciuto ascoltando la sua musica, il rap, e sono stato il primo a presentare questo genere in Italia. Questo trampolino di lancio mi ha aiutato ad arrivare dove sono oggi. Perciò sento di dovere molto a New York.”
 
Quali sono i tuoi artisti americani di riferimento?
 
“Potrei citarne a migliaia. Ma probabilmete i più importanti per me sono stati i Beastie Boys, i Public Enemy e i Talking Heads, tutti di New York. Ed ancora i Run-DMC, un gruppo hip-hop del Queens. Amo il suono latino di Harlem, il funk influenzato dai ritmi partoricani e la black music. Come vedi, molta della mia musica trova radici in questa città.”
 
Con quale cantante vorresti duattare qui negli Stati Uniti?
 
“Mi piacerebbe che Chuck D. dei Public Enemy venisse ad un mio concerto. Loro sono stati sicuramente il gruppo rap più importante per la mia generazione. Incontrai Chuck anni fa. In un’intervista che ha realizzato in Italia di recente ha detto di ricordarsi di me. Spero davvero che in futuro riusciremo a suonare insieme.”
 
Nella tua carriera sono stati molti i duetti e le collaborazioni artistiche. Da Pavarotti alla Nannini, per passare a Syria, Ron, i Negramaro. Quale ti ha emozionato di più?
 
Credo che siano stati tutti importanti, ognuno per un motivo diverso. Alcuni di queste, però, mi hanno anche permesso di stringere amicizie molto profonde. Quello con Giuliano dei Negramaro è un rapporto ricco per me, un continuo scambio e profondo. Soprattutto, però, sono felice di aver incontrato Luciano Pavarotti. Sono stato davvero fortunato: lo ritengo un personaggio storico ed ha sempre portato alta l’immagine dell’Italia nel mondo. La sua amicizia è stata preziosa per me.”
 
Che emozione vuoi donare al pubblico newyorkese?
 
“Mi definisco un cantante globale. Mi nutro di musiche di tutto il mondo, ma conservo una caratteristica italiana: riesco a coniugare melodia e rap, e lo faccio da anni. Qui in America non si usa e so che presenterò qualcosa di nuovo. Il mio spettacolo sarà molto mediterraneo, con un’impronta di rap e funk. Credo sarà un’esperienza interessante per un newyorkese”
 
Sul palco sei più un dj o un cantante?
 
“Sono un po’ di entrambi. Sono un dj quando organizzo e decido che scaletta proporre. Durante i miei spettacoli, poi, comunico molto con il mio pubblico. Voglio che si diverta! Nelle mie canzoni, invece, sono sempre più cantante. La mia passione per lo scrivere cresce ogni giorno di più, così come la mia voglia di cantare.’
 
I tuoi fan elaboreranno una quinta versione ufficiale di ‘Mezzogiorno’, il tuo nuovo singolo, e a loro hai dedicato un book fotografico che ripercorre il tuo tour ‘Safari’. Credi molto in loro. C’è una scelta artistica che hai fatto e che è stata direttamente dettata da questo particolare legame con il tuo pubblico?
 
"Sento un legame molto forte con il mio pubblico, è vero, ma cerco di mantenere sempre una certa indipendenza nelle scelte artistiche che faccio. Quando scrivo e realizzo i miei dischi dimentico di avere un pubblico. Le mie canzoni nascono da un piacere e da un’esigenza del tutto personale. Ma se i miei sogni e le mie passioni coincidono con quelle del pubblico per me è meraviglioso, vuol dire che c’è una sintonia.”
 
Da tempo curi un tuo blog personale, “Sole Luna”. Che rapporto hai con la tecnologia? 
 
“Internet sta cambiando il mondo, e credo che la trasformazione sia ancora all’inizio. Grazie al mio blog riesco a comunicare con i miei fan, dovunque essi siano, e loro possono seguirmi scaricando e ascolando la mia musica dal loro computer. Anche se virtuale, il nostro rapporto è molto più diretto.
Utilizzo Internet anche molto al di la’ del mio blog. Mi informo quasi esclusivamente attraverso la rete e ormai quando compro un giornale di carta mi sembra di avere in mano un pezzo di passato.”    
 
In un post del tuo blog hai citato William Blake: “Quando le porte della percezione si apriranno tutte le cose appariranno come realmente sono: infinite” . Utilizzeresti questa citazione anche per gli Stati Uniti di Obama? Cosa credi sia cambiato in questo Paese?
 
“Obama ha acceso anche in me un forte entusiasmo che ho condiviso con una folla incredibile a Washington il giorno dell’Inaugurazione. Lo sento anche un po’ il mio Presidente, lui è una figura globale. Le sue scelte avranno ripercussioni non solo in America ma anche nel resto del mondo, anche in Italia.
L’America aveva sofferto molto durante l’amministrazione Bush che l’aveva allontanata dall’immagine di terra di opportunità, di libertà. Ricordiamoci, tra l’altro, che nella costituzione degli Stati Uniti, c’è la parola “felicità’”. Poi l’entrata in scena di Obama ha fortunatamente contribuito ad accorciare questa distanza tra il Paese e gli ideali che ispira. Il nuovo Presidente incarna davvero il “sogno americano”, rappresenta la sconfitta dei cinici e la ricostituzione dello spirito democratico che anima questo popolo da sempre. Con lui l’America torna ad essere un mito per le nuove generazioni, la loro ‘land of opportunity’”. 
 
Secondo te cosa ha davvero spinto la maggioranza degli statunitensi a votare Obama?
 
“I cittadini scelgono sempre il candidato che rispecchia più fedelmente i valori in cui credono. Credo che il fatto che sia stato eletto sia già un segno importante di cambiamento. In realtà credo che di questo dovremmo anche ringraziare l’amministrazione Bush. Vedo l’America come un bambino che, dopo la febbre alta, cresce più forte di prima. Esce fortificato da un distacco profondo con la precedente amministrazione. Ha avuto il coraggio di cambiare e imparare dal passato, al contrario dell’Italia che dopo quindici anni di Berlusconi non riesce ancora a voltare pagina. Obama non è l’antagonista di Bush, ma una novità. E’ questo che rende questa elezione cosi importante dal punto di vista storico e politico.”
 
Sulla rivista “Internazionale” hai scritto che la vittoria di Obama è potenzialmente più importante di quella di Kennedy e che rappresenta il momento storico del tuo tempo. Quale vorresti fosse quello della generazione di tua figlia Teresa?
 
“Mi piacerebbe che mia figlia e i suoi coatenei assistessero alla risoluzione di due problemi fondamentali che colpiscono tutti noi, sebbene in maniera diversa. Il primo è sicuramente quello della povertà: c’è ancora una fetta troppo importante della popolazione mondiale che ne soffre. Non è giusto che ci siano cosi tante differenze tra un bambino nato in un Paese povero e uno nato in uno ricco. Il secondo è quello della discriminazione: spero che si vada verso un mondo dove non sia più concepibile, che sia essa basata basata su fattori di razza, di colore o di sesso.”
 
E dopo i concerti a New York? Progetti…
 
“Tornerò a scrivere e mi dedicherò ad un nuovo disco. Studierò, leggerò, farò le cose che più mi piacciono, rintanandomi nella mia vita. Fuori dai riflettori.”

Per la versione in inglese dell'articolo clicca qui

Dicono che il tuo nome d’arte, Jovanotti, viene da Joe Vanotti, un nome che sembra italo-americano. Quando e come mai l’hai scelto? 

“Un po’ per caso. Poi come spesso succede con le cose fatte un po’ con leggerezza ti rimangono attaccate per tutta la vita. Ma ne sono contento, perchè è un nome che mi ha portato davvero molta fortuna. Tra l’altro è vero quello che dici: la mia scelta era Joe Vanotti. Chiamai al telefono il grafico che stava preparando la copertina del mio primo disco per comunicarglielo e per errore lui scrisse “Jovanotti”. Quando vidi la copertina stampata, poi, decisi di lasciarlo cosi. Mi piaceva.”

 Che rapporto hai con gli italiani all’estero ed in particolare con la comunità italo-americana?

 
“Come tutti gli italiani, o quasi tutti, avevo anche io un parente in America. Mia zia era emigrata in Canada e viveva a Montreal. Quando ero bambino questa zia per me era un mito, mi mandava tanti regali e, soprattutto, le scarpe da ginnastica “americane”. Le aspettavo sempre! Non ci vedevamo spesso, ma mia madre, mia nonna, andavano a trovarla di tanto in tanto. Quindi ho sempre sentito questo legame forte con l’America, rappresentava il mio secondo Paese.
Il mio amore per questa terra si è poi rafforzato quando ho deciso di intraprendere la carriera artistica e trovai nella musica americana un importante punto di riferimento.”
 
Con i concerti di New York del 18 e 19 febbraio farai il tuo debutto negli Stati Uniti. Come mai hai scelto proprio questa città?

 
“Pur essendo il mio primo concerto qui, la sento come “la mia citta’”. Sento di appartenerle e per questo vengo qui almeno almeno una volta all’anno. L’ho visitata per la prima volta nel 1989 e quando scesi da quell’aereo mi sentii per la prima volta a casa. Ero arrivato in un posto che già conoscevo bene, pur non avendolo mai visitato. Ero cresciuto ascoltando la sua musica, il rap, e sono stato il primo a presentare questo genere in Italia. Questo trampolino di lancio mi ha aiutato ad arrivare dove sono oggi. Perciò sento di dovere molto a New York.”
 
Quali sono i tuoi artisti americani di riferimento?
 
“Potrei citarne a migliaia. Ma probabilmete i più importanti per me sono stati i Beastie Boys, i Public Enemy e i Talking Heads, tutti di New York. Ed ancora i Run-DMC, un gruppo hip-hop del Queens. Amo il suono latino di Harlem, il funk influenzato dai ritmi partoricani e la black music. Come vedi, molta della mia musica trova radici in questa città.”
 
Con quale cantante vorresti duattare qui negli Stati Uniti?
 
“Mi piacerebbe che Chuck D. dei Public Enemy venisse ad un mio concerto. Loro sono stati sicuramente il gruppo rap più importante per la mia generazione. Incontrai Chuck anni fa. In un’intervista che ha realizzato in Italia di recente ha detto di ricordarsi di me. Spero davvero che in futuro riusciremo a suonare insieme.”
 
Nella tua carriera sono stati molti i duetti e le collaborazioni artistiche. Da Pavarotti alla Nannini, per passare a Syria, Ron, i Negramaro. Quale ti ha emozionato di più?
 
Credo che siano stati tutti importanti, ognuno per un motivo diverso. Alcuni di queste, però, mi hanno anche permesso di stringere amicizie molto profonde. Quello con Giuliano dei Negramaro è un rapporto ricco per me, un continuo scambio e profondo. Soprattutto, però, sono felice di aver incontrato Luciano Pavarotti. Sono stato davvero fortunato: lo ritengo un personaggio storico ed ha sempre portato alta l’immagine dell’Italia nel mondo. La sua amicizia è stata preziosa per me.”
 
Che emozione vuoi donare al pubblico newyorkese?
 
“Mi definisco un cantante globale. Mi nutro di musiche di tutto il mondo, ma conservo una caratteristica italiana: riesco a coniugare melodia e rap, e lo faccio da anni. Qui in America non si usa e so che presenterò qualcosa di nuovo. Il mio spettacolo sarà molto mediterraneo, con un’impronta di rap e funk. Credo sarà un’esperienza interessante per un newyorkese”
 
Sul palco sei più un dj o un cantante?
 
“Sono un po’ di entrambi. Sono un dj quando organizzo e decido che scaletta proporre. Durante i miei spettacoli, poi, comunico molto con il mio pubblico. Voglio che si diverta! Nelle mie canzoni, invece, sono sempre più cantante. La mia passione per lo scrivere cresce ogni giorno di più, così come la mia voglia di cantare.’
 
I tuoi fan elaboreranno una quinta versione ufficiale di ‘Mezzogiorno’, il tuo nuovo singolo, e a loro hai dedicato un book fotografico che ripercorre il tuo tour ‘Safari’. Credi molto in loro. C’è una scelta artistica che hai fatto e che è stata direttamente dettata da questo particolare legame con il tuo pubblico?
 
"Sento un legame molto forte con il mio pubblico, è vero, ma cerco di mantenere sempre una certa indipendenza nelle scelte artistiche che faccio. Quando scrivo e realizzo i miei dischi dimentico di avere un pubblico. Le mie canzoni nascono da un piacere e da un’esigenza del tutto personale. Ma se i miei sogni e le mie passioni coincidono con quelle del pubblico per me è meraviglioso, vuol dire che c’è una sintonia.”
 
Da tempo curi un tuo blog personale, “Sole Luna”. Che rapporto hai con la tecnologia? 
 
“Internet sta cambiando il mondo, e credo che la trasformazione sia ancora all’inizio. Grazie al mio blog riesco a comunicare con i miei fan, dovunque essi siano, e loro possono seguirmi scaricando e ascolando la mia musica dal loro computer. Anche se virtuale, il nostro rapporto è molto più diretto.
Utilizzo Internet anche molto al di la’ del mio blog. Mi informo quasi esclusivamente attraverso la rete e ormai quando compro un giornale di carta mi sembra di avere in mano un pezzo di passato.”    
 
In un post del tuo blog hai citato William Blake: “Quando le porte della percezione si apriranno tutte le cose appariranno come realmente sono: infinite” . Utilizzeresti questa citazione anche per gli Stati Uniti di Obama? Cosa credi sia cambiato in questo Paese?
 
“Obama ha acceso anche in me un forte entusiasmo che ho condiviso con una folla incredibile a Washington il giorno dell’Inaugurazione. Lo sento anche un po’ il mio Presidente, lui è una figura globale. Le sue scelte avranno ripercussioni non solo in America ma anche nel resto del mondo, anche in Italia.
L’America aveva sofferto molto durante l’amministrazione Bush che l’aveva allontanata dall’immagine di terra di opportunità, di libertà. Ricordiamoci, tra l’altro, che nella costituzione degli Stati Uniti, c’è la parola “felicità’”. Poi l’entrata in scena di Obama ha fortunatamente contribuito ad accorciare questa distanza tra il Paese e gli ideali che ispira. Il nuovo Presidente incarna davvero il “sogno americano”, rappresenta la sconfitta dei cinici e la ricostituzione dello spirito democratico che anima questo popolo da sempre. Con lui l’America torna ad essere un mito per le nuove generazioni, la loro ‘land of opportunity’”. 
 
Secondo te cosa ha davvero spinto la maggioranza degli statunitensi a votare Obama?
 
“I cittadini scelgono sempre il candidato che rispecchia più fedelmente i valori in cui credono. Credo che il fatto che sia stato eletto sia già un segno importante di cambiamento. In realtà credo che di questo dovremmo anche ringraziare l’amministrazione Bush. Vedo l’America come un bambino che, dopo la febbre alta, cresce più forte di prima. Esce fortificato da un distacco profondo con la precedente amministrazione. Ha avuto il coraggio di cambiare e imparare dal passato, al contrario dell’Italia che dopo quindici anni di Berlusconi non riesce ancora a voltare pagina. Obama non è l’antagonista di Bush, ma una novità. E’ questo che rende questa elezione cosi importante dal punto di vista storico e politico.”
 
Sulla rivista “Internazionale” hai scritto che la vittoria di Obama è potenzialmente più importante di quella di Kennedy e che rappresenta il momento storico del tuo tempo. Quale vorresti fosse quello della generazione di tua figlia Teresa?
 
“Mi piacerebbe che mia figlia e i suoi coatenei assistessero alla risoluzione di due problemi fondamentali che colpiscono tutti noi, sebbene in maniera diversa. Il primo è sicuramente quello della povertà: c’è ancora una fetta troppo importante della popolazione mondiale che ne soffre. Non è giusto che ci siano cosi tante differenze tra un bambino nato in un Paese povero e uno nato in uno ricco. Il secondo è quello della discriminazione: spero che si vada verso un mondo dove non sia più concepibile, che sia essa basata basata su fattori di razza, di colore o di sesso.”
 
E dopo i concerti a New York? Progetti…
 
“Tornerò a scrivere e mi dedicherò ad un nuovo disco. Studierò, leggerò, farò le cose che più mi piacciono, rintanandomi nella mia vita. Fuori dai riflettori.”
 
 
 
 
I Concerti di Jovanotti a New York:
18 Febbraio 2009 (20:00): Highline Ballroom (431 W 16th St, New York, NY 1001)
19 Febbraio 2009 (20:30): Le Poisson Rouge (158 Bleecker St, New York, NY, 10012)
 
Jovanotti incontrera' il suo pubblico all''Istituto Italiano di Cultura (686 Park Avenue, New York, NY 10065) il 19 Febbraio (18:00) e un gruppo di studenti della New York University il giorno successivo alla Casa Italiana Zerilli Marimo'.

Novità!  La 55DSL invita il pubblico ad una performance gratuita di Jovanotti il 17 febbraio dalle 18:00 alle 21:00 presso la sua sede newyorkese a Soho (281 Lafayette Street). Drink gratis per tutti! Per maggiori informazioni contattare il press office della 55DSL al numero 212 255 6603

The last event organized this year to commemorate Remembrance Day was hosted and organized by the Calandra Italian American Institute. “Memoirs and Memories” featured four speakers of different cultural, racial, and ethnic backgrounds who recounted their own personal and professional experiences of the Fascist persecution of Jews. The Institute, said Dean Anthony Julian Tamburri, had several reasons to organize an event of this kind: first, because it is dedicated to the research and promotion of all things having to do with the Italian American experience; second, because, although the majority of Italian Americans are Catholic, there are still many who practice other religions such as Judaism; and third, because promoting a more intimate knowledge of Italy and its culture and history certainly contributes to the institute’s mission. 

People began arriving at 10:30 a.m. From i-Italy’s office I could hear the chatter in the hall. I noticed many familiar faces that I had met earlier in the week at various events organized in conjunction with Remembrance Day. The Consul General Francesco Maria Talò and Stella Levi, member of the Board of the Primo Levi Center, were among them. I felt proud to be sharing this kind of experience with them. It was as though we had all taken a journey together and I think that the event organized by the Calandra Institute was the fitting end. During the previous events we had analyzed the Holocaust from diverse points of view, from the historical and academic to the sociological and political. Now it was time for individuals to come forward and share their personal experiences and sentiments. This is the reason why we celebrate this day each and every year, and why we will continue to do so. We could read hundreds of history books and elaborate on dozens of theories, but if we don’t feel the necessary empathy, if we don’t believe that what happened to the Jews more than forty years ago has inevitably affected the lives of the rest of us as well, then everything we are doing is useless. History is not made up of books, dates, and battles. It is made up of our own personal experiences. The death of all those victims, the exile, the separation of entire families – they are the Holocaust. On Friday, January 31, the Calandra Institute gave voice to those people. 

Before the symposium started the Consul General Talò gave an overview of the activities and events organized during the week to commemorate Remembrance Day. His were words of praise towards the directors of the various Italian institutions and academic centers who cooperated in this common effort, in the spirit of the so-called “Sistema Italia” (Italian System). The first speaker, introduced by moderator Vincenzo Pascale (Rutgers University), was John Locicero. In his long career as a Democratic politician in New York, during which he held many important positions such as President of the Village Independent Democratic Club and one of Mayor Koch’s chief political operatives, he had the chance to interact with the Jewish community of New York. With a very funny and moving speech, he also retraced his youth in the East Village where he lived with his family next door to his grandmother’s house. There he would hang out with kids from different races and cultures, including Jews. “We never asked about each other’s faith or backgrounds. We just played.” Yes, that’s what children do. Is it necessary to emphasize racial and cultural differences? Can’t we just live in peace without creating this kind of (non-existent) problem? This seemed to be the point behind his words. He noticed that as the years passed and he became an adult, he saw the xenophobia around him: “Fascist propaganda was growing stronger and stronger in the Italian American community. Not that we supported Mussolini and his racist ideas, but our people had a different kind of ‘Jewish problem.’ Jews who managed to escape from Nazi Europe and come to America were almost considered to be intruders. In the middle of the Depression they were coming to our cities and taking our jobs. For the most part, this is the way they were viewed at the time.”  

More than an observer, Professor Robert Zweig (Borough of Manhattan Community College) experienced the tragedy of the Holocaust within his own family. His parents were both Jewish: his German father survived Auschwitz and along with his Neapolitan mother they immigrated to the United States in 1946. He shares these memories in his autobiography Return to Naples: My Italian Bar Mitzvah and Other Discoveries. He read an excerpt of his book in which he describes his mother’s difficulties in her native land; she continued to love Italy even though she was rejected and treated like a stranger there. His life is a journey into the past and present of the Jewish community in Naples where he visited his grandmother for three months every year until he turned 15. He was completely fascinated by the city, by the people who lived there, and by the Jewish community that attended his bar mitzvah. His memories have the bitter aftertaste of melancholy.

The first part of the conference saw us curious and anxious to hear the next testimonies. After having tasted a slice of kosher pizza gently offered by the Calandra Institute, at 1:00 pm we all returned to the conference room. The Italian Jewish journalist Gianna Pontecorboli and Simona McCray-Pekelis were waiting for us. As for the others, they were introduced by moderator Pascale, who competently directed the whole symposium.

Gianna Pontercorboli  had a rich debate with people from the public. A lady, as an example, recounted the generosity of the Italian people who helped her family escape. Her husband’s family in Sardinia managed to hide in the mountains near Cagliari, aided by peasants from the surrounding area. “They considered us Italians; in their eyes we were their fellow citizens and they felt the need to protect us. I think this is very indicative of the Italian attitude in general,” she said.

Mrs. Pontecorboli had experienced the generosity of Italian people too: thanks to their kindness, she and her family were able to get false IDs and hide from the Nazis .With a soft smile on her face she recalled: “It was very hard to convince my sisters that our name was no longer Pontecorboli but Prosperi.” Of course, there had been people who betrayed their Jewish neighbors and friends but, as she remembered, most “normal people” were willing to help. Although her memories were painful she left us with hope and a hint of optimism.  

Professor Stanislao Pugliese, Hostra University, closed the symposium with his essay “Primo Levi and the Double Bind/Bond of Memory.” Although he didn’t personally suffer the tragedy of the Holocaust, it has become the focus of his research. Levi committed suicide as Pugliese was about to graduate. He had just finished reading A Survivor in Auchwitz, an account that deeply shocked and moved him. From that time on Levi “haunted” him. He decided that he was a good ghost to have around because “Levi reminded me of things that we should always keep in mind.”  

The essay is an introduction to a forthcoming collection entitled Answering Auschwitz: Primo Levi’s Science and Humanism After the Fall. According to Professor Pugliese, the Holocaust is the second fall in humanity’s history. (The first took place in the Garden of Eden.) Levi, he explained, was stuck in an impossible double bind. On the one hand, there was the necessity of recording and recounting an event for which he felt he didn’t have the proper conceptual and linguistic tools. On the other, the difficulty of translating his memories into words had to be overcome in order to use his experience as a weapon against possible future “falls.” 

He ended by quoting an excerpt of an article written by Levi in the Corriere della Sera (1974), the leading Italian daily newspaper:

“We must remember that every age has its own Fascism. And we see the sign whenever the concentration of power denies the means and possibility to act according to one’s free will. There are many ways to reach this point: not just through the terror of police intimidation but by denying and distorting information, by undermining the system of justice, by paralyzing the education system, by spreading nostalgia for a world where order reigns and the security of the privileged depends on the forced labor and the forced silence of men.”

January 27:  On Remembrance Day many Italian-Americans, Italians, and Americans gathered in front of the Consulate General of Italy for the entire day. Many people took to the podium to read the names of thousands and thousands of Jews who were deported from Italy and the Italian territories during the Nazi-Fascist era. Feelings of guilt, compassion, and sorrow crowded our hearts and minds. Those were the names of people who might still be alive today if it weren’t for us, for the rest of humanity who preferred to look away, pretending that nothing was happening, refusing to see, to hear.
 
January 27 was not only a day of commemoration. No, reading aloud pages of names is not enough. We must reflect, reason, ask ourselves why. And most of all, we must wonder if we are doing enough to avoid similar tragedies in the future.
 
The Primo Levi Center in New York gave us this precious opportunity.
 
Do Italians still remember the awful discrimination and persecution perpetuated against the Jews in the 1940s, starting with the Racial Laws of 1938? What have they learned from the past? Or, maybe it is better to reformulate the question: Did they learn anything at all? The documentary screened that evening gave us discouraging answers. The title

speaks for itself: Quella Pagina Strappata (The Torn Page, Daniel Toaff, 1988). It refers to the first half or so of that decade, the years when an entire stratum of Italian society was unjustly killed – and that fact seems to have been completely forgotten.
 
The people that took part in the survey had no idea what the Racial Laws were all about: “Legally authorized discrimination? Deportation, massacres? No, I don’t remember anything like that.” … “No, I am not interested in politics.”… “No, I was a child at that time and history is not my field.” These were just some of the answers. Well, there was one person who did mention the Racial Laws but his comment was, “Well, those were Jews, it doesn’t count.” Is this it? Is this all Italians could answer? Was that page of history really torn or was it that the survey didn’t really reflect the truth?
 
Looking around at the people next to me in the auditorium, I would have given the second answer: everyone was so surprised, skeptical, and scandalized. No one seemed to believe that it could ever be possible.
 
But there was something that made me think that perhaps we had this reaction because we were “focused” on the subject; we knew what we were talking about. We were prepared to give the right answer. In a month or so we will relegate these memories to a corner of our minds, keeping them quiet, and acting as though nothing ever happened. That “something” was the interview with Andrea Fiano, Chairman of the Board of the Primo Levi Center and journalist for the Italian newspaper Milano Finanza conducted by Rabbi Jack Bemporad, Director of the Center for Interreligious Understanding. The latter’s comments, opinions, and statements made me understand that in order to say that memory is actually still alive people must act according to its teachings. But in the past and present we often see indifference and behavior that fall far from this ideal. Let’s see why.

 
Past: Rabbi Bemporad’s family never lived the holocaust experience. They escaped from Italy as soon as the Racial Laws were passed. “We have to understand that there are different types of victims; those who avoided the concentration camps were not winners at all. I remember the fear I saw in my parents' eyes when we came in this country. They didn’t speak a world of English. We were objects of great prejudice; my father had no particular skill so he couldn’t even find a job. Anti-Semitism was incredibly strong here too.” Nobody remembers this: first torn page.
 
Present: “Why is this day, Remembrance Day, different from other days?” This is the question the rabbi was asked. He answered with another question: “Why should it be different?” Why do we need a day to commemorate, when we have thousands of occasions every day to demonstrate that we learned our lessons? We still have entire populations, communities, ethnic groups being killed every day. They are not far away from us, but we want to be blind. Or maybe we actually are. We look back and dedicate a day to the Shoah of the Jews, when we have holocausts all around us.” 
 
What to do? “We have to set up structures, institutions, which teach the values of fraternity and altruism – values that rise from our common memories. We need to have a massive program of education. It’s a duty for the Jewish community and for the Christian church as well. They apologized for their silence in the past, I know. But I remember that John Paul II told me in 1990 that he had done everything in his power to institutionalize history through education. I expect that his present and future successors will follow his path, regardless of the political interests they might have […].”
 
“This is a day of commemoration, not a day of commiseration. Pity hides an innate awareness that what happened to the Jews is unique and could not touch anyone else in the past, present, or future. That’s wrong: these are universal matters. We are all menaced by this sort of nuclear bomb. But would we like to see the day where every non-Jew will stand up and say 'We will not tolerate a Holocaust denier.’ When they will, only then, we will be able to say that Jews have been accepted. People must understand that the holocaust is not simply a Jewish issue.”
 
Who's issue is it? “Well, Bosnia was not Jewish. Zimbabwe is not Jewish, and what is happening there is absolutely horrendous. And people keep living just on memory, when there are people being massacred all around us and we are not doing anything at all about it. Even Jews don’t lift a finger.” One day our present will make history: we are tearing another page of memory. 
 
 
This Holocaust is the greatest moral lesson of history and we haven’t taught it. And that’s the tragedy.
 
 
 
(Edited by Giulia Prestia)