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Abbiamo incontrato il direttore della Camera di Commercio Italo-americana (IACC), Alberto Comini. Riportiamo la nostra intervista con lo scopo di far una istituzione unica che contribuisce alla crescita e al rafforzamento delle relazioni economiche tra i due Paesi. Tutto questo da 121 anni, contribuiendo alla crescita delle importazioni italiane negli USA, e viceversa.
Comini ci ha spiegato quali settori industriali interessano maggiormente questo commercio translatlantico e come il Made in Italy sia riuscito e riuscirà a penetrare il mercato statunitense.
Dopo aver riflettuto sulle reali possibilità che l’IACC ha di proteggere i nostri marchi dalla contraffazione, ci siamo soffermati a discutere sull’eventuale trasformazione delle sue funzioni e obiettivi, in risposta alla crisi economica internazionale in corso. Su come questa muterà i rapporti bilaterali tra USA ed Italia e su come potrebbe incidere il cambio dalla guardia alla Casa Bianca.
Direttore ci spieghi innanzitutto quali sono le funzioni della Italy-America Chamber of Commerce e come questa assiste gli esportatori italiani...
“Voglio premettere che l’IACC è stata fondata nel 1887 per rispondere alle esigenze dei primi immigrati negli Stati Uniti. Queste persone non avevano esperienza nel settore industriale, al contrario nella gran maggioranza dei casi si erano sempre dedicati alla produzione artigianale e domestica. Quindi il tipo di esportazione a quei tempi si limitava sostanzialmente al settore enogastronomico: in quegli anni infatti i cittadini americani conobbero per la prima volta gli odori e i sapori della vera cultura locale e contadina italiana.
Ovviamente poi l’IACC si è evoluta, sia per funzioni ricoperte che per obiettivi prefissi. Oggi ovviamente non ci interessiamo solo all’importazione di prodotti alimentari ma anche di quelli automobilistici, aereospaziali, chimici ed informatici.”
Come assolvete a questa vostra funzione? Vi avvalete anche di partnership con enti ed istituzioni economiche localizzate sul territorio italiano?
“Lo facciamo in collaborazione con Unioncamere, la rete di Camere di Commercio sparse sul territorio italiano, e con Confindustria, sia a livello regionale che nazionale. Cerchiamo anche di promuovere interesse da parte delle regioni, delle municipalità e delle diverse istituzioni pubbliche e private a carattere commerciale oggi operanti. Con queste cerchiamo di indivuare quali dei beni prodotti in un determinato polo industriale potrebbero registrare una buona domanda negli USA. Ad esempio, con le municipalità di Brescia e Torino tentiamo di promuovere le esportazioni nel settore metalmeccanico, mentre con Milano ci concentriamo sulla moda e l’informatica.
Infine, il nostro campo di attività si amplia fino a rappresentare le istituzioni e gli enti commerciali italiani qui a New York. Lo facciamo, per esempio, con ‘Sviluppo Lazio’, con il quale abbiamo stipulato un accordo di collaborazione per favorire il finanziamento di alcune società farmaceutiche italiane da parte di banche e istituti finanziari statunitensi.”
Secondo lei è un caso che la prima istituzione economica bilaterale sul territorio statunitense sia proprio l’IACC? Perchè gli USA hanno preferito una partnership commerciale con l’Italia e non con un altro Paese?
“Non credo sia un caso. Credo che gli italiani che arrivarono in questo Paese a fine ‘800 fossero persone molto intraprendenti: loro, al contrario della grande maggioranza di persone provenienti da altri Paesi, non erano qui semplicemente per cercar fortuna. Arrivarono negli Stati Uniti per restare, per crearsi una nuova vita.
Fu lo stesso anche per il mio bisnonno, un pittore che nella sua vita aveva viaggiato in tutto il mondo, chiamato ad abbellire chiese e palazzi da nobili, ecclesiastici e rappresentanti pubblici. Non aveva mai pensato di fermarsi in alcuno dei Paesi in cui aveva lavorato, era sempre tornato in Italia. Questo finchè non lo chiamarono a Boston con l’incarico di affrescare nuove chiese appena costruite in città. Quella fu la prima volta che portò la famiglia con se, la moglie e i figli. Non disse mai apertamente quali fossero le sue intenzioni, ma alla fine rimase qui e non tornò mai più in Italia.
Fecero come lui moltissimi italiani. Tuttevia non dimenticarono mai le loro origini, anzi ne fecero in alcuni casi fonte di reddito, esportando qui prodotti provenienti dai loro luoghi natali. Dunque entrambi i governi, quello statunitense e quello italiano, trovarono in loro un punto di riferimento stabile, una realtà consistenete sulla quale fondare l’IACC, che da quel momento si impegnò a coltivare e ad accrescere questo legame.”
L’impegno dell’IACC è anche bilaterale? In altre parole, promuovete anche l’ingresso di prodotti statutitensi in Italia?
“Si, ci impegnamo anche su questo versante ma se devo ammettere che le nostre attività si concentrano soprattutto nel promuovere le esportazioni italiane qui negli Stati Uniti. Tuttavia, sono diversi i casi in cui abbiamo assistito imprenditori americani interessati ad investire sia nel mercato finanziario italiano che in quello commerciale.”
Come giova l’esportazione il commercio transatlantico all’economia italiana?
“Il mercato statunitense è importantissimo sia per la crescita dell’economia italiana che di quella europea. La crisi economica internazionale certamente mette in discussione gli ultimi dati statistici, che vedono le esportazioni italiane in questo Paese in costante crescita. Riscontriamo un calo di vendite soprattutto nel campo della moda e, in generale, nei settori industriali impegnati nella produzione dei cosiddetti “beni di lusso”. Non perchè ci sia un calo di interesse nei confronti del Made in Italy, sia ben chiaro. Il nostro marchio rimane ancora oggi un sinonimo di garanzia di qualità e stile. L’attuale convergenza economica ha però i suoi inevitabili effetti, che potremo quantizzare soltanto in un secondo momento.”
Soffermiamoci un momento sul Made in Italy. Cosa fa l’IACC per proteggerlo contro le contraffazioni?
“La nostra battaglia per difendere il marchio italiano è perlomeno decennale. Ci siamo riferiti al Congresso, al governo statunitense, per tentare di arginare queste truffe che danneggiano profondamente la nostra economia. Ma non è un compito facile, soprattutto considerando la varietà della gamma dei prodotti da proteggere. Si va dai pomodori San Marzano, una specialità del territorio campano contraffatta sia in California che in Cina, fino alle grandi griffe di moda. È difficile soprattutto perchè il governo americano spesso tende a soprassedere; da parte nostra, d’altra parte, mettiamo a disposizione dei produttori italiani i nostri esperti legali.
Tuttavia bisogna anche considerare che in molti casi il Made in Italy non esiste più, o almeno non come una volta. Oggi parlerei piuttosto di Made “by” Italy, dato che anche i grandi stilisti commissionano il confezionamento delle loro creazioni ben al di fuori dell’Italia, soprattutto in Cina e nel Sud-Est Asiatico. I parametri per stabilire e portare a buon fine un ricorso per punire la contraffazione diventano a questo punto molto labili e, in ogni caso, difficilmente definibili.”
Parla di battaglie decennali. Da quanto tempo le porta avanti da direttore dell’IACC?
“Da circa quattro anni.”
Di cosa si occupava prima di questo incarico?
“Ero e sono tuttora un imprenditore. Mi sono trasferito in America nel 1960 e ho fondato nel 1964 Omnia Industries, di cui mantengo ancora oggi la maggioranza del pacchetto azionario. È una compagnia che produce serrature per porte a cavallo tra gli USA e l’Italia: siamo in qualche modo l’incarnazione dell’idea sulla quale si fonda la Camera di Commercio che dirigo. Sono entrato a far parte di questa istituzione nel 1971 e ne sono diventato prima Vice-President per 6 anni e poi Executive Vice-President per altri sei. Dati i fatti posso affermare con certezza che i due ruoli che sto ricoprendo in contemporanea da sempre subiscono l’uno l’influenza dell’altro.”
Cosa significa per lei essere il direttore dell’IACC a New York?
“Devo confidarle che forse avrei preferito vivere questa esperienza in un’altra città. Non mi fraintenda, io amo moltissimo New York, la sua architettura, la comunità italiana così viva qui. Ma forse è proprio questa vitalità che mi spingerebbe a trasferirmi altrove. Vorrei che il mio incarico rappresentasse anche una sfida per me, per capire fino a quanto riuscirei a far apprezzare il prodotto italiano negli Stati Uniti. Questo a New York non è possibile perchè qui si respira Italia più che in qualsiasi altro posto in questa nazione. Sceglierei forse una città come Cleveland o Cincinnati.”
Non pensa che in ogni caso le sfide restano molteplici, anche se qui a New York? L’attuale crisi economica forse è la prima e la più importante da affrontare in questo momento. Nel suo discorso di presentazione al Galà del 21 novembre ha affermato che la crisi contingente non fa altro che rafforzare i rapporti tra i due Paesi creando all’interno della Camera di Commercio una sorta di comunità transnazionale. Può spiegarci come l’attuale stato dell’economia internazionale potrà cambiare l’operato dell’IACC?
“Già a partire dei primi giorni del 2009 intensificheremo i contatti con i nostri partners italiani, sia istitutionali che non. In questi giorni stiamo lanciando un appello tramite Unioncamere e Confindustria italiana per incoraggiare i grandi costruttori italiani a venire qui in occasione di un forum indetto dalla municipalità di NY per il 12 gennaio. Lo scopo è assegnare degli appalti per la realizzazione di progetti infrastrutturali nel centro cittadino, tra cui la costruzione di un tunnel sul fiume Hudson che agevoli le comunicazioni con lo stato del New Jersey. Partecipando a questo evento le compagnie di costruzione italiane, delle realtà importanti che in molti casi operano già a livello internazionale, potrebbero ampliare il loro volume di affari anche in questo Paese.
Oltretutto con la stessa Unioncamere e con il suo segretario generale Tripoli, che abbiamo onorato alla Cerimonia di Galà del 21 novembre, stiamo mettendo a punto una campagna di promozione che possa contribuire ad accrescere le esportazioni dal meridione italiano. Intendiamo coinvolgere soprattutto i grandi produttori, lasciando da parte le piccole e medie imprese. Saranno i primi, in un secondo momento, ad agevolare a questi l’ingresso nel mercato americano.”
Intendete avvalervi anche della collaborazione di istituzioni americane per la realizzazione di questo progetto?
“Confidiamo soprattutto nelle altre istituzioni italiane localizzate nell’area newyorkese e che costituiscono quello che noi chiamiamo ‘Sistema Italia’. Penso al Consolato Generale, all’Istituto Italiano di Cultura, all’ICE e all’Enit. Con loro vorremmo stimolare l’offerta e lo spirito di iniziativa dell’imprenditoria italiana. In fondo la crisi economica è anche un’opportunità, perchè ci chiede e ci invoglia a ricominciare da capo, a cercare nuove risposte e strategie. Io intendo coglierla e trasformarla in una sfida da superare.”
Che ruolo ha la neopresidenza statunitense nella corsa a questo traguardo e, più in generale, nel superamento della crisi economica?
“Credo molto nel neo-presidente Obama. Questo per due motivi: innanzitutto credo che abbia le capacità per riabilitare il soft power statunitense dopo questo periodo di forte declino, in cui il Paese è stato visto per lo più come un impero predatore in decadenza; secondo, credo nel suo “New Deal” e mi associo a chi lo ha definito il Roosevelt del XXI secolo. Ha promesso di intervenire con un piano di ammodernamento delle infrastrutture industiali nazionali. Sono consapevole che non c’è nulla di più contrario all’ideologia repubblicana conservatrice ma credo che questo sia l’unico veicolo perchè gli USA riescano a riemergere da questa fase di declino economico, soprattutto se contribuirà a creare più di 2 milioni di posti di lavoro come sembra che sia.”
Come si inserisce questa strategia di politica economica nazionale piuttosto statalista nel nuovo contesto economico globale?
“Credo che le politiche economiche nazionali rimangano ancora molto importanti, ma nella nuova realtà globale è necessario riuscire a coordinarle. Credo che inoltre sia anche importante incentivare la collaborazione tra Stato e cittadini, lo sposalizio tra iniziativa pubblica e quella privata. Tali condizioni agevolerebbero senza dubbio l’operato e il perseguimento delle missioni di cui si fa carico l’IACC.
A questo proposito non posso fare a meno di menzionare il politico ed imprenditore Piero Bassetti. Pochi giorni fa è stato qui a New York ospitato sia da noi che da voi di i-Italy presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò per presentare il suo nuovo lavoro “Italici”. Ecco, nel libro si ipotizza proprio la costituzione di una rete globale che coinvolga e connetta milioni di italiani c
he, stabilitisi in diverse zone del mondo, rappresentano e mantengono vive le proprie origini e la propria cultura. Credo sia possibile creare un network tra privati di questo genere anche sul piano commerciale.
Dal punto di vista istituzionale una realtà di qusto tipo già esiste, ed anche in questo caso il merito va soprattutto a Bassetti. Fu proprio lui ad ideare Asssocamere Estero, un’associazione di 72 camere commerciali italiane localizzate al di fuori del territorio italiano. Bisogna a questo punto coordinare questi network privati e istituzionali allo sforzo bilaterale dell’IACC. Costituerremmo un importante team pronto a cogliere le opportunità e le sfide offerte dalla glocalizzazione di un sistema economico che, teso al globale, risponde ancora alle logiche e alle peculiarità delle diverse strategie di politica economica nazionale.”
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