Per decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino a 10-15 anni fa si pensava che “la madre di tutti i problemi” fosse il conflitto tra Israele e Palestina e che risolto quello si sarebbe risolta la questione mediorientale. Certo, a partire dal 1990, mentre l’Unione Sovietica si disgregava, c’era stato il caso della prima guerra irachena, poi ripropostosi una dozzina d’anni dopo, ma si pensava ancora che si trattasse di problemi ben individuati, circoscritti.
Si è scoperto un Vaso di Pandora e si è visto che la situazione nella regione era molto più complessa di come l’avevamo percepita. E oggi è sotto gli occhi di tutti: mai prima d’ora s’era visto lo svilupparsi di così tanti e diversi conflitti allo stesso tempo. Pensiamo alla Siria, all’Irak, alla Libia, allo Yemen, a Gaza.
Come ci si e arrivati? Lasciando che i problemi si accumulassero, non riconosciuti e dunque non trattati con la dovuta attenzione sia da attori regionali che dalla comunità ’11 settembre 2001, l’agenda internazionale è stata strettamente “europea”: abbiamo rivolto la nostra attenzione altrove, dai Balcani all’allargamento dell Unione Europea, ed abbiamo trascurato quello che si chiama il “sud del mondo”, dove intanto fermentavano i maggiori problemi per la pace, la sicurezza e la stabilità internazionale.
C’è stato dunque un deficit di analisi dei fermenti in corso. E un deficit di azione o azioni inadeguate, in primis da parte dell'Occidente. Ad esempio in Irak o in Libia si è pensato che una soluzione militare fosse possibile, che estromettendo i regimi autocratici sarebbe scaturito uno sviluppo democratico, di per se stabilizzante.
Ora, questo evidentemente non è successo. Perchè? Perchè più che un conflitto tra dittatori e “forze democratiche” che chiedevano libertà e diritti avevamo difronte conflitti tra gruppi settari e tribali, che appena cadute le dittature si sono scagliati l’uno contro l’altro. Molto spesso inoltre questi gruppi si sono legati a “sponsor esterni” che hanno fomentato conflitti “by proxy”, per procura, dietro ai quali si celavano agende regionali non immediatamente visibili.
Deficit di analisi, dunque: e ad analisi sbagliata o inadeguata non può che seguire una policy sbagliata o inadeguata.
Senza voler assolvere l’Occidente, però, c’è da dire che anche gli altri attori internazionali sono stati a lungo latitanti: mentre declinava l'ordine unipolare che era emerso subito dopo la Guerra Fredda, nessun altro attore emergente si assumeva responsabilità dirette nella regione – i cosiddetti BRICS, i G20, e cosi via. Tutte le responsabilità continuavano invece a pesare sull'Occidente e sugli americani in particolare, sebbene la pace e stabilita' in Medio Oriente sia un 'common good', che interessa tutti ed implica responsabilita' collettive.
Il risultato è che nella regione mediorientale ci troviamo ora ad affrontare due grandi ambiti problematici: da un lato abbiamo il problema delle divisioni settarie e tribali di cui parlavo prima; dall’altro vi sono i problemi strutturali di queste società: con ampie fasce sociali non solo impoverite ma anche disenfranchised e disempowered, caratterizzate da alti tassi di analfabetismo sia in senso letterale che in senso politico: e dunque di masse di persone facilmente strumentalizzabili e manovrabili da formazioni violente interessate ad alimentare i conflitti.
Come si può uscire ora dalla situazione che si è creata? Inutile illudersi che lo si possa fare in breve tempo. Ma è possibile indicare alcune direttrici positive.
Innanzitutto, a livello di diplomazia internazionale, c’è bisogno di un’azione concertata multilaterale. Come europei e occidentali possiamo fare meglio e di piu', con strategie piu' articolate e maggiori coerenza e coesione nella nostra azione. Ma anche cio' non sarebbe sufficiente. I problemi del Medio Oriente non possono essere risolti con una Pax Occidentale, ma solo da un’azione condivisa tra i diversi attori regionali e attori internazionali.
In secondo luogo, per quanto riguarda il nostro paese, l’Italia può svolgere un ruolo molto positivo. In parte lo fa già: quello dell’Italia è un ruolo non-divisivo . E questo è già tanto e viene giudicato positivamente nella regione.
Parlando da osservatore/ operatore istituzionale italiano sul terreno noto una grande disponibilità di comunicazione delle popolazioni locali nei nostri confronti . C’è una “chimica umana” molto forte con l’Italia e gli italiani, che sono percepiti come un popolo mediterraneo, dotato di una sensibilità particolare, di sentimenti umani che non si riconoscono alle nazioni del nord europa. Questo si avverte in modo palpabile nel contatto con tutte le categorie sociali, dall’uomo della strada, al politico, all’intellettuale: siamo visti come la “faccia buona dell’Occidente”, l’Occidente dal volto umano” a fronte di una mentalità ancora molto sospettosa nei confronti di altre realtà occidentali.
Sembrerebbe uno stereotipo, quello degli “Italiani brava gente,” ma non è un elemento da trascurare. E’ invece un grande asset che l’Italia ha in Egitto e in altre realtà della regione e che puo' fare la differenza per la nostra politica estera, ovviamente se sostenuto dalle risorse necessarie, risorse umane, economiche e culturali.
Questo e’ il nostro “soft power” come lo chiamano gli analisti. E molto ci sarebbe da fare per consolidarlo: scambi giovanili, borse di studio, corsi di management, incontri people-to-people specialmente tra le giovani generazioni… E anche iniziative di promozione di quelle “cose belle della vita” che uniscono i popoli invece di dividerli e di cui l’Italia è ricca: cultura, moda, cibo, arte. Potrà sembrare strano, ma questi sono strumenti di diplomazia parallela, certo ad ampio raggio ed efficaci su tempi medio-lunghi, e che necessitano di risorse economiche da poter investire e di cui spesso purtroppo non disponiamo.
Infine, ma non da ultimo, c’è l’azione che sta svolgendo il Papa, che non a caso mi sembra ha preso il nome di Francesco, il cui simbolismo è strettamente legato al tema della pace nel mondo anche a causa di quel viaggio in Terrasanta durante la crociata, in cui il Santo riuscì a farsi ricevere dal Sultano d'Egitto e a tentare un compromesso di pace, per quanto infruttuoso.
Il Papa Francesco è una figura inclusiva, e dunque portatore di un messaggio che qui ha ricadute positive. Naturalmente gli estremisti islamici non tollerano la convivenza con i cristiani, nè nella regione ne a livello internazionale. Hanno tutto linteresse a presentare gli odierni conflitti come uno scontro di civiltà. Ma per i moderati, invece, vedere un papa cattolico che prende posizioni decise in favore della pace come Francesco serve proprio a sottolineare che non c’è un conflitto tra occidente cristiano e mondo islamico. Il conflitto come dicevo all’inizio, è interno al mondo islamico, tra un Islam moderato che vuole coesistere con l'Occidente ed un islam estremista che si ritiene inconciliabile sia con l'islam moderato che con l'Occidente.
Risolverlo sarà un lavoro lungo. Ma un lavoro a cui bisogna applicarsi da subito e a cui non vi sono alternative.
*Italy's Ambassador to Egypt