Hanno scritto e detto tante cose sulla New York di questo periodo, senza riflettere molto a mio avviso sui problemi strutturali, già presenti molto prima dell’arrivo del Covid-19.
New York non è morta, come alcuni hanno detto, e non è neanche in agonia, ma certo non sta bene. Era già malata e per anni ha preso le medicine sbagliate. Si era illusa di essere l’ombelico del mondo, in un mondo che non ha più bisogno di ombelichi.
New York l'audace, la città delle novità, in realtà non lo era da molto, viveva di rendita, di immagine.
Non era più la città di punta del momento. C'era qualcosa che le impediva di rinnovarsi, così come ha sempre saputo fare. Era imbalsamata nei salotti, nelle sue gallerie d’arte, nella marea di turisti che la voleva toccare, quasi saccheggiare, nei suoi locali dove tutto era esagerato, nelle sue spa extra-lusso, nei suoi terrazzi dalla vista mozzafiato accessibili a pochi, nei suoi negozi flagship aperti ma sempre vuoti, nei suoi grandi magazzini pieni di sconti esagerati, ma soprattutto nel poco coraggio di rischiare per cambiare e scardinare certe contraddizioni..
Il Covid ha dato la scossa. E' stato una sorta di elettrochoc. Molti se sono andati via, soprattutto i ricchi, tutti nelle loro seconde case al mare, in campagna, molti meno ricchi hanno perso il lavoro e quindi la possibilità di pagare un affitto, anche solo di una stanza, magari con più del 50 per cento dello stipendio, un’assurdità di cui però non ci si scandalizzava tanto prima.
Da poco ho finito la mia quarantena e in questi primi giorni ho deciso di andare a trovare la New York meno conosciuta. Quella dove non si va quasi mai. I suoi quartieri più popolari, abitati da ispanici o neri, orientali, quella dei migranti. Quei posti dove fino a sei mesi fa potevi trovare un dignitoso, colorato e spesso chiassoso modo di vivere, dove abita una comunità invisibile che fino a marzo si arrangiava, magari senza neanche una posizione regolare. Lì la parola clandestini non è così rara. Ci sono persone senza un visto regolare, ma con i figli a scuola e una famiglia da mantenere.
Se devo descrivere quello che ho visto fino ad ora in poche parole, posso azzardare un paragone che nasce da una sorta di déjà vu che ho provato. Mi sembrava di essere tornata in Unione Sovietica, dove ho vissuto, alla periferia di Mosca.
Ho visto file per ottenere pacchi alimentari, gente vendere per strada tutto e di tutto, dalle scarpe al ninnolo di plastica del bambino, senzacasa in giro senza neanche poter chiedere l’elemosina. Non sono riuscita a fare delle foto, mi sembrava di essere invadente, di mancare di rispetto.
Perché dietro le loro mascherine i loro occhi erano molto eloquenti, grintosi, veri testimoni dell’anima di New York, quella più semplice. La città viveva di queste persone apparentemente invisibili, presenti nelle case dell’Upper West Side o East Side come domestici, presenti nelle cucine dei ristoranti, presenti in tutti i locali dove si doveva fare pulizia, nei palazzi in costruzione, pronti a fare i lavori più umili. Affollavano la metropolitana di Manhattan andando a lavorare, magari alle 5 di mattina, mentre altri, tra turisti e newyorkesi, andavano a dormire.
New York è anche questo, anzi soprattutto questo. New York non è morta, sta provando a curarsi l'anima, quella che nascondeva tanti errori, differenze, contraddizioni, e lo sta facendo finalmente combattendo un quotidiano difficile, guardando in faccia la realtà.
C'è dunque una New York di cui si parla poco, che non fa scintille, che non è glamour, ma che contribuisce alla vita della città con le sue tante incredibili api operaie. E' una New York disperata, al limite della povertà, ma profondamente viva.
E' a questa che si deve guardare per ripartire, per una crescita sostenibile per tutti. Per un nuovo modo di vivere la città insieme. Lo spero.