Non credo che il diritto sacrosanto di un bambino che nasce in Italia e in Italia vive sia un’idea di sinistra, credo semplicemente che sia una scelta sensata, giusta, ragionevole e onesta. Mi oppongo con tutte le mie forze contro chi pensasse che questa mia convinzione provenga dal mio stato di “lavoro” o dal mio percorso credente, anche se non nego che l’essere di Cristo mi imponga la giustizia come vocabolario. D’altronde faccio davvero fatica a comprendere chi come me pur ritenendosi cristiano, pensa che rendere italiano un fratello di “altrove” sia un delitto. La mia convinzione è semplicemente frutto di ragione, di relazione con l’umano linguaggio che fa parte del quotidiano mio vivere che mi insegna che la democrazia, la civiltà di uno stato, passa attraverso regole giuste, ragionevoli e oneste.
Lo Ius soli è una regola giusta perché risponde alla più elementare esigenza di governare e disciplinare il già dato, dando dignità e valore di appartenenza a chi vive da sempre la nostra stessa terra, a chi parla la nostra stessa lingua, a chi ama il nostro stesso Paese come noi e forse più di noi tanto da desiderare ardentemente di appartenervi, di rispettarne le leggi, di accettare e fare propria la sua storia. Assurdo pensare che ragazzi, che altra Patria non hanno se non questa, la loro, debbano ancora sentirsi stranieri in quella che sentono casa propria e vivere il disagio di essere nel posto che più amano senza sentirsi amati abbastanza da essere chiamati italiani. Avessero nelle gambe il dribbling giusto non ci sarebbero oppositori a una legge di diritto per la loro cittadinanza, ma gli stadi di calcio non sono il luogo più adatto per dire giustizia e il tifo è altra cosa dalla passione quotidiana perché le idee di libertà vengano tutelate.
Lo Ius soli è una regola ragionevole perché è impossibile pensare che non debba essere regolato ciò che ormai è vita di ogni giorno, bambini che condividono scuole, giovani che fanno parte dello stesso futuro della nazione, dove i diritti e i doveri vanno condivisi con tutti quelli che nello stesso progetto di vita sono diversamente chiamati a partecipare e ad essere protagonisti. Dare cittadinanza è certo aprire a una nuova condizione chi si sente ancora fuori posto, ma anche chiamarlo a una piena responsabilità, a una più consapevole partecipazione, alla presa di coscienza che il diritto di essere italiano pretende il dovere di legge, costume, civiltà, cultura di chi ti dà l’onore e la gioia di esserlo. Verità che in realtà varrebbe per chi desidera cittadinanza e per chi italiano lo è per nascita e per storia, anche se, a conti fatti, penso che il desiderio appassionato di chi oggi vuol essere italiano, di chi ami intensamente la nostra terra, superi l’amore e il rispetto di tanti stessi italiani.
È una legge onesta lo Ius soli, e gli onesti di pensiero dovrebbero farla loro oltre gli steccati ideologici, oltre le contrapposizioni di parte: la verità è materia di uomini liberi come lo era nel passato che ha giudicato già chi era nella verità e chi non ne faceva parte. Proprio in questo giorno, settantasette anni fa, usciva nelle sale cinematografiche un film che ha fatto storia, coraggiosa denuncia di un tempo impazzito, foga iconoclasta del diverso, del desiderio di supremazia di pochi sul resto del mondo.
Tutti ricorderanno “Il Grande dittatore” di Charlie Chaplin, l’ultimo suo film girato con i suoi inconfondibili baffetti, tagliati e rifiutati per sempre per essere troppo somiglianti a quelli del demonio nazista. Un film che lancia un grido di speranza, violenza d’amore che non si rassegna a un mondo vinto dall’odio, pronto alla guerra.
Il monologo alla fine del film è ancora tragicamente attuale. Scuote, apre le coscienze a chi vorrebbe un mondo migliore e che, allora come oggi, non si rassegna a vivere il tempo come prigioniero di senso. Invito a riascoltare quel monologo, oggi è facile con un click su YouTube e a commuoversi ancora se possibile: “Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo”. Già, godere della felicità dell’altro, anche di quella di chi vorrebbe essere italiano. Ma questa è un’altra storia. O forse no.
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