Di “storie minime” da raccontare, ne avrei abbastanza da poter scrivere un libro, se solo avessi la capacità di organizzare il materiale, programmare il lavoro, crearmi una prospettiva, individuare una finalità, e ricompattare poi le pagine scritte in un blocco unico e unitario.
Se vado a rileggere, come talvolta faccio, la serie degli articoli che negli anni sono stati pubblicati su quotidiani e riviste, forse, fatto salvo il dato di cronaca, il pretesto estemporaneo e occasionale, che ne ha suscitato la scrittura, mi pare di poter riconoscere come unitario solo quel certo spirito che generalmente anima la mia pagina, a meno che non si voglia ritenere segno di omogeneità la presenza di qualche giudizio ricorrente oppure la costante riflessione sul sociale, sul comportamentale, sull’ideologico: la gnome, che forma la caratteristica del mio stile nella scrittura. Comunque, a parer mio, non sufficiente a farne un’opera unitaria, vista la eccessiva frammentarietà dei numerosi interventi che spesso, proprio perché legati alle circostanze, appaiono frammentati e addirittura ripetitivi.
È diverso, se vado a rileggere invece – come sto facendo in questi ultimi tempi in cui mi muovo alla ricerca di qualcosa di positivo da lasciare agli eredi – siano essi nella discendenza genealogica o in quella più larga degli affetti – i pochi e striminziti versi che fino ad una certa epoca sono andato scrivendo, memore del richiamo del Poeta: “Sol chi non lascia eredità di affetti …”.
Le opere di poesie – si sa – singolarmente presentano una struttura autonoma e di facile definizione, indipendentemente dalla loro lunghezza; e, pur costituendo le mie, ognuna di esse, un momento isolato e per nulla collegato agli altri – della giornata o della vita – mi è più facile riconoscere il filo conduttore che le attraversa e le accomuna in qualche cosa di organico, quasi fossero un’unica composizione formata da tanti capitoli diversi. Sembra strano, ma è più facile per le poesie che non per la prosa descrittiva e narrativa, recuperare al suo interno un principio di unitarietà. Almeno per me.
Il rigore razionale che sempre mi ha accompagnato fin dagli anni della mia giovinezza e poi condizionato in seguito in tutte le manifestazioni della vita, credo che abbia bloccato la mia scrittura – come si dice oggi – creativa. La scrittura cioè dei racconti e della memoria, quella della fiction. Per contro mi sono sempre ritenuto più capace alla stesura di relazioni o verbali; più fedele ad una scrittura argomentativa, propria degli studi analitici e delle descrizioni di fenomeni dinamici, visti nel loro divenire: genesi, cause, fasi, situazioni, tendenze, direzione, obiettivi, finalità, scomparsa o estinzione, tutto quanto sia in movimento nello spazio e nel tempo. Anche fenomeni sociali e politici. Ma anche quelle dinamiche interiori, psicologiche, fisiologiche o patologiche, soggettive – reali o supposte tali – effetto di suggestioni, di deformazione ottica, o altro. E poi la compilazione di schede schematiche di flussi logici o di altre procedure in cui sia centrale una certa conseguenzialità. Quella che si dice, in breve, prosa argomentativa.
Col passare degli anni ho ritenuto che questa attitudine comportamentale fosse dovuta alla pratica del linguaggio burocratico, registro linguistico al quale mi aveva condotto la mia scelta di partecipare a gruppi organizzati fin dalla più giovane età, confermata poi, una volta entrato nel mondo del lavoro, dalla funzione di impiegato di concetto, con cui ero stato assunto. La mania dei documenti: la loro lettura e, a volte, anche la loro stesura fatta di quel tipo di scrittura, detta anche burocratica.
E così mi ritrovo ancor oggi più capace di scrivere una pagina sintetica su un soggetto circoscritto, meglio se a carattere scientifico, pseudo-scientifico o documentario. Del tipo: saggio o monografia. Anche se negli ultimi tempi questa rigidità mi appare alquanto stemperata da uno stile dialogico e da un registro basso che spesso richiedono un lessico familiare non troppo lontano dallo standard. Mi sembra di essere meno portato, in conclusione, per le grandi e particolareggiate descrizioni.
Un secondo limite è costituito dalla mia scarsa inclinazione alla lettura. Parlo della lettura vigile, cosciente, critica. Eppure di storie ne avrei da raccontare, e non solo quelle minime. Un affastellato di immagini nella memoria, di fotografie, di oggetti, di pagine scritte per necessità di vita e di lavoro, o da me o da altri in famiglia che poi le ha raccolte e tramandate. Tanti oggetti domestici, mobili, utensili, indumenti, giocattoli, documenti personali e passaporti fuori uso, arredo e corredo, ornamenti della persona e della casa. Tanti e tanti, moltiplicati ancora per quante sono le persone componenti il nucleo famigliare, quelle ancora vive e presenti in casa e quelle che vi hanno dimorato, compresi i padri, e i padri dei padri; e le altre con cui ognuna di esse è venuta a contatto.
E poi le sensazioni, i sentimenti, gli affetti. Quelli miei e quelli di ognuna di esse. Ma qui si rischia di attraversare un campo minato. Di molte di queste storie, legate a questi oggetti reali o simbolici, oppure riflessi della coscienza di chi meglio di me avrebbe potuto raccontarle, spesso si è addirittura perduto il filo narrativo. Oggetti che non parlano più o, se ancora comunicano, dicono poco. Frammenti. Da quando i custodi diretti di quelle memorie per ragioni storiche ed esistenziali si riducono sempre di numero. O da quando l’assuefazione alla routine o la stessa precarietà della natura umana ne hanno affievolita la forma e l’immagine, divenute intanto anch’esse pura evanescenza nella nebbia dell’oblio.