Oggi è la festa dei nonni. Sono stato un bambino fortunato, un papà felice, ora nonno felicissimo. Ho avuto la fortuna di crescere con l’esempio e i buoni consigli di nonna “Mara Tiresa”, come affettuosamente la chiamavo quando ero bambino.
Mi ha dato tanto. Le sue radici, innanzitutto. Radici fortissime. Mi hanno fatto crescere con
l’orgoglio delle origini. Che conservo. Gelosamente. Mia nonna era una donna forte. Straordinariamente dolce. Comprensiva. Mi affascinavano i suoi racconti di bambina, che nei campi doveva aiutare i genitori, che dava da mangiare alle galline, che nel pollaio andava a raccogliere le uova e che accudiva anche il paziente asinello che andava a trovare nella stalla. Non c’erano giocattoli.
Leggendo qualche tempo fa uno scritto di Corrado Alvaro dal titolo “Il nipotino”, pubblicato dalla Stampa il 18 novembre 1927, ho ripensato a mia nonna e a quello che mi diceva negli anni Cinquanta. Scriveva Alvaro: “Nella stalla gli occhi dell'asino si spalancarono su di noi come occhi dell'oscurità.
Cesarino rideva e batteva le mani. Salì sulla groppa della bestia che seguitava a ruminare accosciata sulla paglia, e fece proposito di molti viaggi: Io credo, diceva, che abbiamo fatto bene a venire qui. Non pensava più di ripartire, ma rideva di un riso nuovo, il riso elementare dei ragazzi dei campi, aperto, grosso, senza ragione, che non si sa di dove nasca se non dalla felicità di trovarsi in un mondo dove i giocattoli sono animati da un soffio di vita”.
Un soffio di vita. E debbo dire che io mi divertivo tanto da mia nonna. Aveva ancora le galline. Ed era bello correre sui campi, all’aria aperta. A volte erano stati appena zappati e seminati. Quindi “vietati”. Ma la gioia era tanta che il divieto spesso lo ignoravo. Cosa vuoi che sia una sgridata od un ceffone. E vai, di corsa, a pieni polmoni, felicemente! Mia madre mi sgridava. E qualche volta arrivava anche qualche ceffone. La nonna, no. “E’ cotraru, fallu u ioca” (E’ un bambino, fallo giocare).
“Mara Tiresa” tutta la vita ha lavorato nei campi. Me la ricordo con la schiena piegata in due, le mani segnate dalla fatica. Il volto sempre sereno. Non l’ho mai sentita lamentarsi. Dalla bocca di mia nonna non è mai uscita una parola che non fosse d’incitamento per chi era in difficoltà e di elogio per chi aveva fatto bene. Non sapeva cos’era l’invidia. Sapeva cos’era il rispetto. E sapeva cos’era il bisogno. Dava a chi non aveva. Non si è mai lasciata prendere dallo sconforto. Lutti gravissimi. Ha perso un figlio nella Prima Guerra Mondiale, ha avuto tre figli con gravi problemi di salute, è rimasta vedova con otto figli da crescere (quattro femmine e ad ognuna di loro ha preparato anche la dote “obbligatoria” a quei tempi per le ragazze che si dovevano sposare).
Mio nonno era morto di crepacuore negli anni Venti. L’alluvione aveva fatto straripare il torrente Cafia. Le acque tumultuose avevano devastato tutti i terreni circostanti. Il florido campo ben coltivato da tutta la famiglia dei miei nonni completamente distrutto. Alberi sradicati. Pietre su pietre. Niente era più rimasto. Le fatiche di un anno spazzate via. Appena mio nonno si è affacciato sull’uscio di casa ed ha visto quello scempio ha avuto un urlo di rabbia e poi si è accasciato a terra. Il suo cuore non ha retto.
Mia nonna con l’aiuto di tutta la famiglia quel terreno l’ha riportato di nuovo ad essere produttivo. E’ stata costretta a far ricorso all’aiuto di altri contadini, che pagava alla giornata. E tra questi per lungo tempo c’è stato anche il padre del giovane Francesco Logozzo che sarebbe poi diventato suo genero, sposando la figlia Giuseppina, mia madre.
Il vasto terreno agricolo si trovava nel cuore del paese. Era di proprietà del barone Macrì. Mia nonna, colona, morta ultranovantenne, vi era rimasta fino a quando l’amministrazione comunale non decise di costruire su quel terreno il nuovo edificio delle scuole elementari. Andò via senza ricevere neanche una lira di indennizzo. Mio padre insegnava nella Scuola di Avviamento Professionale ed era al vertice del comune. Era stato lui a voler dare ai ragazzi di Gioiosa Jonica finalmente un edificio scolastico. Era stato lui in pratica a far andare via mia nonna dalle terre che aveva coltivato per decenni. Mia nonna neppure in questo caso si lamentò. Lei, analfabeta, aveva mandato a scuola soltanto l’ultima delle figlie, mia madre. Fino alle elementari.
Venne a vivere per sempre a casa nostra con mia zia Giuditta, avendo dovuto lasciare la casa colonica demolita per costruire il nuovo edificio scolastico. Negli ultimi anni rimaneva soltanto fino al tardo pomeriggio nella casa colonica e poi veniva a dormire con noi. E questo per non farla rimanere sola di notte, sia per l’età avanzata che per qualche problema di cuore. Qualche centinaio di metri dividevano casa nostra dal terreno coltivato dalla nonna. Per me fu una grande gioia. Nelle sere d’inverno ci sedevamo tutti intorno al braciere. Io, i miei fratelli Nicola, Pompeo e Vici l’ascoltavamo. Con piacere.
Quella sua voce calma, quel suono poetico, quell’incisività del dialetto gioiosano che purtroppo non c’è più. Sogno spesso la notte nonna “Mara Tiresa”. Sogni che mi fanno ritornare bambino. Ma mi fanno anche riflettere e mi aiutano. Da lei ho avuto grandi lezioni. La ricchezza dei valori della cultura contadina. Esempi. Fatti concreti. Prove difficili, superate con l’umiltà della ragione. La costanza e la coerenza. Lezioni che mi sono servite. E mi servono ancora. “Mara Tiresa” mi ha dato tanto amore. L’ho amata e la amo tanto.
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