CARA Napoli, amata terra mia, come vorrei vederti sorridere, come vorrei che tra le righe della tua storia si potesse scrivere a caratteri cubitali la parola speranza. Parola di sogno, non per allontanarti dalla verità, non per imbastardire l’origine dei tuoi guasti, ma per sostenerti nella lotta del tuo riscatto.
Tra qualche giorno lasceremo alle spalle l’anno andato, con tutte le illusioni che ti hanno ingannato: la politica delle promesse mancate, le prediche dei progetti mirabolanti mai realizzati, le processioni dei questuanti, cortei di professori senza cultura, di fondazioni umanitarie senza giustizia sociale, delle confraternite senza pietà per gli ultimi.
Tra qualche giorno lasceremo alle spalle l’anno che passa. Forse non getteremo dalla finestra tutta la roba vecchia, non ne abbiamo la forza, non ne abbiamo l’attitudine, perché da secoli siamo rassegnati accumulatori di ingiustizie e prevaricazioni. Il desiderio c’è, in tanti, ma non la determinazione, così gli uomini che ti hanno ingannato avranno ancora il potere della parola per democratico consenso o per ecclesiastico mandato, avranno in tanti ancora la libertà di farti fessa.
Vorresti un destino diverso, all’altezza della bellezza che il Padreterno ti ha concesso il giorno in cui ti ha partorito, sei stanca di sentirti offesa nella tua dignità, nelle straordinarie potenzialità sciupate che il genio e l’arte della tua gente hanno da secoli dimostrato di possedere.
Ma Napoli mia, amata terra, lamentarsi non serve a nessuno se alle parole di protesta non seguono quelle di speranza, uniche capaci di originare lotta, parole che costano sangue e fatica, che non possono essere rivendicate da chi non ha fede nel successo. Piangersi addosso è arte a te conosciuta, sei maestra nell’attribuire ad altri i tuoi dissesti, le tue rovine, ma credimi quello che manca alla tua storia è una rivoluzione vera, capace di cambiarti i connotati fin dentro le viscere, rigenerarti a sostanza di vittoria. Perfino quella di Masaniello fu solo una scaramuccia, che tale è rimasta, come quella del ‘99, storia conosciuta, grandi ideali ma lotta di pochi. Dove era il popolo, dove la tua gente?
Difficile fare rivoluzioni dove festa e farina danzano insieme, dove il motto più gridato dalla tua gente è “cà nisciuno è fesso… noi pure dobbiamo campare”. Difficile inventare parole di liberazione dove il sacro ha reso onore ai potenti, difficile inventare giustizia se in nome di Dio la Chiesa ha preteso la rassegnazione degli afflitti a ogni genere di sopruso. Nessuno, cara Napoli mia, verrà a darti speranza, neppure il Papa con le sue dolci parole, se non acchiappi in te stessa la forza di sognare una nuova consistenza, il coraggio di dare vita a una nuova cittadinanza.
Hai nel tuo bagaglio ricchezze ineguagliabili, puoi mostrare al mondo i tuoi tesori di cultura, di storia, di arte, soprattutto di un’umanità generosa.
Ma che te ne fai di tutto questo se ancora sei aggrappata a ciò che hai perso, a un passato incapace di organizzare il futuro? Che storia stai raccontando di te, a te stessa, del tuo presente?
Ti lasci scippare il futuro espellendo dal tuo seno gli uomini migliori, i più preparati che potrebbero regalarti il loro genio e la visione, costretti a cercare altrove sussistenza per invidia dei ladri di mestiere, mentre ti accontenti di mediocri raccomandati, figli di padri con qualche merito in più dei figli ma raccomandati anche loro, a suo tempo.
Il sogno si lega alla speranza, ma la speranza non è materia onirica, non fa dormire chi vuole ribellarsi ai prepotenti, è costruzione titanica di vita, efficace motore di visione, è spazio nel presente per ridisegnare futuro, è desiderio di un domani che vuole destini condivisi.
Solo una nuova politica, Napoli mia, potrà rigenerare il vissuto della tua terra, solo una nuova spiritualità potrà ridisegnare i confini della giustizia e della libertà, solo una cultura non prezzolata potrà indicare il corso nuovo della legalità.
Pochi giorni e anche quest’anno sarà passato, qualche scoppio di mortaretti, un brindisi benaugurante, lenticchie per moneta, concerti in piazza sotto il cielo per ballare con le stelle.
Il mio calice lo elevo a te, Napoli mia, amata terra, l’augurio è per te che tu possa da subito, il giorno dopo la festa, danzare la speranza, raccontare a chi ti ama che non sei un’occasione fallita, che ancora è possibile per chi lotta per la tua dignità guardare al suo domani non lontano dalle tue braccia.
Speranza possibile se a brindare per te non resterò da solo.
* Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).
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