L’AQUILA – Un tempo, prima che la grande emigrazione prosciugasse di braccia queste aride terre dell’Abruzzo montano, l’altipiano che si snoda dai resti dall’antica città vestina di Peltuinum fino al magnifico borgo di Navelli, era un giardino di mandorli in fiore, a primavera. Perle bianche tenuamente tendenti al rosa ingioiellavano i campi distesi sull’acrocoro. E più ancora gli acclivi che nei due lati ne erano cornice, trapuntati di borghi dalle splendide architetture e vestigia d’antichi castelli e fortezze sulle sommità dei colli, a presidio di quelle comunità. Sulla piana, in sequenza, magnifiche chiese di pietra, le facciate squadrate, indorate dal sole.
Correva, lungo l’altipiano dove da secoli si coltiva l’oro rosso più buono del mondo, l’antico“tratturo magno”, la grande via della transumanza. Era largo oltre centodieci metri. Prendeva avvio dai contrafforti amiternini, già patria di Caio Crispo Sallustio, superando di lato il colle dove nel 1254 venne fondata L’Aquila, e si dispiegava come “un erbal fiume silente” fino alla Puglia, alla Capitanata di Foggia, dove le greggi dai monti andavano per otto mesi a svernare. Dunque su quel tratturo, dalle terre dei Sabini e dei Vestini - gli antichi popoli italici di questa parte d’Abruzzo -, per oltre due millenni e fino a qualche decennio fa, i pastori hanno scritto storie di fatica, sofferenze, relazioni umane e commistioni di culture, accompagnando le loro greggi verso le campagne del Tavoliere pugliese. Vita dura, grama, specie in queste terre sassose dell’Abruzzo interno da cui negli scorsi due secoli fiumi d’emigranti sono partiti per le Americhe, poi per l’Europa e l’Australia. E con loro sono partite le braccia, quelle stesse che dalle balze inerpicate verso l’imponente catena del Gran Sasso prima carpivano dai sassi scampoli di terra da coltivare, per il parco nutrimento di famiglie ricche solo di bimbi, o che pascevano le greggi dei grandi armentari.
La lunga falda che dal tratturo sull’altipiano arrampicava verso la grande catena montuosa, nel suo versante meridionale, era territorio dell’antica Baronia di Carapelle, un ampio dominio feudale nato a cavallo tra il Duecento e Trecento e comprendente i borghi di Carapelle Calvisio, Santo Stefano di Sessanio, Calascio e la sua Rocca, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte e Barisciano. Un territorio florido per la pastorizia, che per quattro mesi nutriva le greggi sui pascoli in quota del Gran Sasso, per gli altri otto alimentava la transumanza verso la Puglia. Decine di migliaia di pecore, alcune di razza “carfagna”, così pregiate per la loro particolare lana scura da spingere nel 1579 i Medici di Firenze ad impiantare una cospicua presenza a Santo Stefano di Sessanio per controllare in loco la produzione della lana, poi lavorata in Toscana ed avviata ai mercati di tutta Europa. Un territorio che, dopo gli anni del prosciugamento migratorio e dell’abbandono, oggi finalmente riparte offrendo meraviglie architettoniche, artistiche e ambientali. A cominciare proprio da Santo Stefano di Sessanio, entrato nel club dei Borghi più belli d’Italia. Vi si sale da Barisciano, a Santo Stefano, lungo la strada che tra un’infinita serpentina di curve giunge fino a Fonte Vetica e Campo Imperatore, vestibolo delle grandi cime della catena del Gran Sasso, da Monte Camicia a Monte Prena, fino a Corno Grande, la vetta più alta dell’Appennino.
Sulla via per Castel del Monte e Campo Imperatore, Santo Stefano di Sessanio è il primo centro abitato che s’incontra, a 1250 metri d’altitudine. Appare quasi d’improvviso su un cocuzzolo, con la cilindrica torre trecentesca dominante sulla sommità, ornata di merlature.
Ora Santo Stefano è diventato un caso d’accademia, dopo che l’architetto d’origini svedesi Daniele Kihlgren, acquistando vecchie case abbandonate e rimaste immacolate negli originali materiali costruttivi, va restaurando gran parte del borgo ad albergo diffuso. Kihlgren ha cura del recupero certosino dei fabbricati mantenendone la qualità edilizia originaria, mentre l’inserimento impiantistico si dissimula senza soverchie apparenze. Ne parlano i giornali di tutto il mondo di Santo Stefano, pagine intere gli ha dedicato il New York Times. E intanto va crescendo un turismo di qualità che ama il silenzio, la bellezza dei luoghi, gli straordinari scenari che la natura espone, la singolarità del borgo con un impianto urbano integro da devastanti manomissioni. Santo Stefano di Sessanio sa ben recitare il suo fascino, con la sobria variabilità delle architetture che mitiga il parossismo delle abitudini nei grandi centri urbani. Insomma, tutto concilia verso una ricettività ospitale e tranquilla, in un contesto ambientale che mozza il fiato.
Le viuzze lastricate s’intrecciano nel borgo, che dispiega la varietà tipologica delle abitazioni tutte in pietra calcarea, che solo i secoli hanno colorato, in un contesto urbano dove tutto si tiene ed è armonia. Dall´erta scalinata che costeggia la Chiesa di Santa Maria in Ruvo, risalente alla fine del Duecento, un intrico di budelli s’infila tra le case fino alla sommità del colle dove s’erge la Torre, con un percorso a tratti infilato a tunnel sotto i fabbricati.
Un singolare sistema costruttivo per proteggersi dalla neve e dai rigori dei venti invernali. Appartengono al dominio dei Medici i loggiati dalla linea elegante, i portali ad arco con formelle fiorite, le finestre in pietra finemente lavorate e decorate da mani esperte, le stupende bifore e le mensole dei balconi. Sulla porta a sesto acuto, accesso di sud-est, risalta lo stemma della Signoria di Firenze, quasi un’impronta di raffinatezza.
Pur in assenza di mura difensive, il borgo è contornato da un continuum di costruzioni che rivelano la funzione di case-mura, evidente dalla rarità di aperture ad eccezione di piccole finestre. Nel borgo s’ammirano alcune abitazioni quattrocentesche, tra cui la Casa del Capitano, la Torre risalente al Trecento, chiamata impropriamente medicea a retaggio della presenza della Signoria fiorentina, la chiesa di Santo Stefano Protomartire, edificata tra XIV e XV secolo, monoaula a cinque campate caratterizzata da un’insolita area presbiterale su cui si aprono le cappelle e un’abside semicircolare. Interessante anche la Chiesa della Madonna del Lago, del XVII secolo, che sorge subito fuori le mura, sulle verdi rive d’un minuscolo lago.
Si ritiene che il nome “Sessanio” sia una corruzione di Sextantio, un piccolo insediamento romano situato nei pressi dell´attuale abitato, probabilmente distante sei miglia da un più importante pagus. Le prime documentazioni fanno risalire la storia di Santo Stefano di Sessanio all’anno 760, quando il re longobardo Desiderio donò la località di Carapelle Calvisio al monastero di San Vincenzo al Volturno. Fino al Mille la storia di Santo Stefano fu collegata a queste due località. In quegli anni l’attività degli ordini monastici, benedettini e cistercensi, portò ad un aumento delle terre coltivabili, fino ad alta quota, oltre alla creazione di borghi fortificati in posizioni elevate. E infatti al 1308 risalgono le prime documentazioni certe dell’esistenza del borgo fortificato di Santo Stefano di Sessanio, territorio facente parte del feudo della Baronia di Carapelle.
La Baronia ricorre spesso nei documenti, in particolare nel Chronicon Volturnense. La prima citazione nel placito del 2 marzo 779, dove si racconta la visita di Dagari, inviato dal Duca di Spoleto a dirimere una vertenza tra la gente di Carapelle ed i monaci di San Vincenzo al Volturno che, nella valle del Tirino, possedevano la cella di San Pietro ad Oratorium e numerosi beni. Uno dei periodi significativi nel processo di trasformazione del territorio s’ebbe con il nuovo assetto creato dai Normanni. Il placito del 779 riferisce per quel territorio un’economia di pura sussistenza, un paesaggio dominato da selve spontanee, la resistenza dei monaci alle attività di disboscamento. La riforma dei Normanni creò un nuovo disegno nel paesaggio, sia a livello difensivo che sull’economia del luogo. E’ da presumere, infatti, che a tale periodo risalga l’incastellamento sul territorio di Carapelle. Dal Catalogus Baronum s’apprende che Signore delle terre della Baronia di Carapelle fu Oderisio da Collepietro, che aveva possedimenti anche nell’altro versante del Gran Sasso. Dopo il dominio di Svevi e Angioini, nel 1384 il tenimento venne assegnato al Conte di Celano. Solo nella seconda metà del Quattrocento entrarono in scena i Piccolomini, che l’ebbero fino al 1579, i quali infine lo cedettero ai Medici di Firenze, che vi rimasero fino a metà del Settecento.
Sarà stato l’eccezionale contesto ambientale ed urbano di Santo Stefano di Sessanio a far uscire dalla sua riservatezza artistica Bruna Bontempo Cagnoli, pittrice feconda, appassionata dai colori della nostra terra, ma finora mai lambita dal desiderio d’epifania. Nasce così AMYGDALUS, la prima Mostra personale di questa Artista sensibile e raffinata. Aprirà per l’appunto a Santo Stefano di Sessanio, dal 13 al 23 dicembre, presso il Palazzo dell’Opificio, in Via degli Archi. Vernissage alle ore 17 del 13 dicembre. L’amore per questi borghi, cresciuto con le assidue frequentazioni di Calascio e della sua magnifica Rocca - per National Geographic uno dei 15 castelli più belli del mondo - s’insediò nell’Artista dopo il tragico terremoto dell’Aquila, quando suo figlio, Franco Cagnoli, musicista e scrittore, vi andò a vivere. Molte le giornate passate lassù, in compagnia di Franco e Mimì, uno degli ultimi pastori calascini. Al pastore Mimì, e al suo gregge, l’Artista dedica infatti la sua esposizione. Quelle esperienze hanno accentuato in lei l’innata passione per la ricerca del colore, attinto dalla Natura al suo stato puro, in una percezione visiva di forte coinvolgimento. E la ricerca del colore en plain air e il suo tratto sulla grezza tela, a volte su semplice iuta, in Bruna Bontempo affondano radici nella storia di queste comunità montane, segnate nel bene e nel male dagli aspri luoghi delle greggi. Nella pastorizia e nelle faticose transumanze. Nella natura incontaminata e cangiante. Nei suoi ritmi e nelle impareggiabili cromie. I suoi dipinti rivelano il cordone ombelicale con la storia di queste terre d’Abruzzo, l’ancoraggio nell’ancestrale essenzialità della cultura rurale della gente di montagna.
Nascono così i tratti del colore sulle sue tele. Intensi. Una pudica espressione dell’anima. La sapida trascrizione del vissuto atavico di queste genti e dei loro antichi rituali quotidiani. Un’umanità forte e schietta. Semplice e gelosa della sua terra, che tra immani fatiche e laceranti solitudini aveva tuttavia la sapienza d’attendere il ritmo del tempo, conosceva rumori ed odori della natura, apprezzava come un dono il cambio delle stagioni vivendo le diverse declinazioni del lavoro. Infine, assaporava lo stupore per i salti cromatici che dal candore delle cime innevate volgevano alle esplosioni dei colori in primavera, quando proprio i mandorli in fiore anticipavano come una rivelazione l’imminente risveglio della natura. E poi la cornucopia di tonalità cromatiche che l’autunno contrappuntava all’estate. “Un mondo magico – dice l’Artista – che ha visto uomini e greggi immergersi nella natura incontaminata e cangiante, nei suoi colori e nei suoi ritmi. Un racconto di vita, di sostentamento e di bellezza, che la memoria non deve mai abbandonare o far cadere nell’oblio, ma tenere desta l’attenzione perché tutto possa vivere, raccontarsi come Amygdalus, che torna a fiorire a primavera, in una rinascita continua di colori, di stagioni e di bellezza”.
La natura incorrotta. Selvaggia. Misteriosa. Sulle tele di Bruna Bontempo diventa scenario di gioco fantastico, poetico. Lirismo cromatico generoso e sensuale, eppure fine e delicato, come il rispetto verso luoghi e genti di questa terra. Una tacita narrazione di storie, d’umanità e di memoria, attraverso il colore. Il portato d’una densa sensibilità artistica e culturale, che sa attingere al vissuto intenso delle genti di questa incantevole porzione d’Abruzzo con l’umiltà di chi cerca l’autenticità vera, libera dai condizionamenti e dalle consuetudini delle comunità “evolute”, imprigionate dalle schiavitù della modernità. Ne deriva una pittura altrettanto libera da canoni estetici preordinati, dove il tratto cromatico rivela ogni volta spontaneità e il colore ostenta una sua purezza non formale. Questa - così credo di poterla descrivere, senza pretese critiche che esulano dalla mia competenza, ma solo quale manifestazione d’una emozione - mi pare l’indole artistica di Bruna Bontempo, formatasi nel crogiuolo culturale aquilano fatto di musica, teatro, cinema e cenacoli letterari, attraverso gli studi condotti tra la Facoltà di Lettere del nostro ateneo e l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Un’indole, tuttavia, che riesce a spiccare il volo grazie alla versatilità d’un animo attento all’Uomo e ai suoi retaggi culturali. Un’attitudine sincera a ricercare e comprendere i valori veri della nostra gente, laddove essa vive da secoli. Un talento, quello di Bruna Bontempo, non sepolto nella terra per semplice conservazione, bensì espresso a piene mani nella ricerca premurosa della dimensione profonda dell’Uomo.
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