“Ahi, fu una nota del poema eterno/ Quel ch’io sentiva e picciol verso or è”. Così il Carducci, ne “Il canto dell’amore”, per sottolineare l’impossibilità di rendere con le parole un sentire, un’emozione, un sentimento, e non solo perché quelle mancano del vissuto, non solo perché la realtà fenomenica e la realtà semantica si pongono su due piani ontologici differenti, ma soprattutto perché uno strumento statico, qual è appunto la parola, non può rappresentare la dinamicità della vita e di tutte le sue manifestazioni.
Eppure, attraverso una prosa lineare, scorrevole, a tratti poetica, e non per il riferimento ai versi di Bécquer, di Lorca, di Neruda, di Góngora, di Pasternak, che hanno il merito di impreziosire il testo, acuendone l’atmosfera romantica che sottende costantemente la narrazione , ma per le immagini che riesce ad evocare per esempio nelle suggestive descrizioni dei tramonti, del soggetto di un dipinto, pur nella cruente descrizione di una disputa, una prosa anche, per un certo verso, gnomica, laddove riflessioni etiche, morali e filosofiche guarniscono lo svolgersi del racconto, Antonio Monda con il suo romanzo “La casa sulla roccia” riesce da una parte a tracciare perfettamente il profilo psicologico del protagonista, dall’altra a renderci vivo tutto un mondo interiore, quel bailamme di
sensazioni, di emozioni, di passioni, di pensieri che mescolandosi incessantemente forgiano in ogni momento la personalità di un individuo.
Dal catalizzatore al subplot, dal flashback al climax, dal protagonista all’antagonista. C’è tutto in questo romanzo che possa ricondursi ad una sceneggiatura, a cui fa da sfondo New York, la città sempre all’avanguardia, che sa rinnovarsi tanto velocemente da rendere tutto instabile, precario, la città che è capace tanto di lusingarti quanto di illuderti, la città in cui tutto si dimentica più in fretta perché non ti dà il tempo di pensare, la città in cui forse la stessa vita può definirsi una sceneggiatura: “L’America è questo, mi aveva spiegato mio padre, che rimpiangeva l’Irlanda dei suoi genitori. A me sembrava che quello fosse in realtà il cinema, ma forse era la stessa cosa”.
Beth, o Liz, sta organizzando un ricevimento per celebrare i settanta anni del marito, un noto avvocato di New York. La sera precedente la festa riceve una telefonata da un uomo con il quale ebbe, circa quaranta anni prima, una relazione tanto passionale ed empatica, quanto destabilizzante, al punto che quella esperienza la diresse verso una soluzione stabile, sicura, benché forse meno colorita ed emozionante. Tale episodio la porterà inevitabilmente a ripercorrere tutto il suo passato, generando in lei una profonda riflessione esistenziale, suscitando dubbi e interrogativi.
Il romanzo si solleva subito dalla dimensione narrativa, approdando ad una dimensione più riflessiva; esso apre spesso a dei quesiti che possono ritenersi coevi all’uomo, a degli interrogativi cui ogni individuo vorrebbe dare una risposta, ma che forse non riesce o non può dare. Se potessimo agire con il senno di poi, compiremmo ancora le stesse scelte o sceglieremmo l’alternativa? “Mi sono chiesta...Cosa perdiamo ogni volta che scegliamo qualcosa, e se mai capiremo cos’è giusto e cos’è sbagliato”. E scegliendo diversamente, saremmo ancora la stessa persona o saremmo diversi? “ Chissà cosa sarei potuta diventare se mia madre non si fosse trasferita in America”. Che la vita ci pone ogni giorno di fronte ad una scelta, sovente di poca rilevanza, talora molto importante, e che ogni scelta implica un rimpianto, ciò è chiaro quasi per tutti, ma è anche retorica porsi le domande di cui sopra poiché la scelta è stata compiuta.
Quel che conta allora è, a un certo punto, tirare le somme, trarre un bilancio: “Non so se sono stata una brava moglie, così dicono tutti a cominciare da Warren, né se sono stata una buona madre, ma quando sulla nostra casa è scesa la pioggia, sono straripati i fiumi, hanno soffiato i venti con tutta la loro forza, la casa non è mai caduta, perché è fondata sulla roccia”. Tuttavia, in un modo o nell’altro, il passato ritorna, o comunque si fa sentire, e allora inevitabilmente ci si interroga sul senso delle nostre scelte, un senso che forse si rivelerà molto a posteriori, ci si interroga sul senso della stessa vita, il quale, al di là di quello meramente biologico della riproduzione, e anche qui ci sarebbe da dibattere infinitamente, forse non si rivelerà mai: “Poi appena andarono via cominciò a parlare di letteratura, di destino, di libero arbitrio, di vita e di morte, come sempre, perché siamo venuti al mondo per dare un senso a questa vita, in ogni momento”, o forse c’è un solo senso che accompagna l’esistenza: “Scopo della creazione è il restituirsi”.
La mancanza di una risposta certa, ancor più dell’infinita vanità del tutto in cui navighiamo, “Tutto è vanità a questo mondo”, forse ancora più del passo estremo, rappresenta il vero dramma di ogni uomo, il quale può essere lenito in un solo modo: vivere intensamente ogni momento come se fosse l’ultimo: “Essere vivo, nient’altro che vivo, vivo e nient’altro sino alla fine”. Vivere cercando sempre di profondere “l’agape”, quell’amore conviviale cui si fece promotore Cristo, perché: “Al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore”.
E pur tuttavia, per quante più esperienze un individuo possa riuscire a vivere, la nostra dimensione psichica non potrà mai dirsi interamente compiuta, poiché un qualsiasi nuovo accadimento, non contemplato dai nostri contenuti mentali, il quale evidentemente indurrebbe una reazione che non possiamo prevedere a priori, potrebbe sempre verificarsi. Pertanto siamo esseri sempre in costruzione, poiché idee, opinioni, sentimenti sono sempre suscettibili di variazioni , sono semplicemente transeunti, provvisori, talora fallaci: “Devo a loro se capii...che non c’è sentimento o idea che non possa essere sostituito da qualcosa di più importante”.
Ma se ogni nuova esperienza contribuisce a cesellare la nostra personalità, il nostro modo di essere, potremo mai dire di sapere chi siamo? Liz e Beth non convivono forse in un unico essere? Perché continuiamo a dire di essere la stessa persona, quando in realtà ogni cellula del nostro corpo cambia ogni giorno? Forse che la coscienza è qualcosa che non ci appartiene, che è al di sopra di ognuno di noi, è un frammento di quella coscienza universale che impregna il tutto, e attraverso la quale si rivelerebbe quel senso che va al di là della mera procreazione?
”E i lampi che ci dicono che esiste qualcosa o qualcuno di molto più grande, e noi siamo solo un granello. Che però è in grado di scegliere e amare”. Sì, di scegliere e di amare. Questa piccola concessione, questo libero arbitrio non deve però renderci tronfi, renderci la presunzione di essere super uomini. Attraversato da un profondo sentimento religioso, alcuni passi biblici citati, da uno dei quali è tratto anche il titolo, ne sono un esempio, il romanzo rivela la necessità di mantenere sempre viva la fede, senza ovviamente cadere nella superstizione, mercé la ragione di cui siamo dotati , rivela l’ipocrisia dell’uomo, che se ne allontana nei momenti in cui l’ ombra non oscura il raggio, avvicinandosi poi nel dolore e nell’ultimo batter di ciglio: “Io piansi molto, in quei giorni, e pregai, senza farmene accorgere: supplicai il Dio della mia infanzia e dei miei genitori, che avevo dimenticato da tanti anni e che ho dimenticato nuovamente, appena Julie è guarita”.
Già, sarebbe vana illusione pensare che la vita non arrechi sofferenza, pensare che per vivere non bisogna lottare, talora venendo sconfitti, come in un incontro di boxe, il cui microcosmo è chiamato qui a rappresentare perfettamente le leggi che governano il macrocosmo dell’esistenza, sarebbe vana illusione pensare di fermare il tempo, esorcizzando così la fragilità del nostro corpo e della morte: “...e a mezzanotte abbiamo cominciato a danzare, perché la vita fugge”.
Sulle orme dei grandi romanzi esistenzialisti, “La casa sulla roccia”, attraverso una vicenda d’amore indaga l’esistenza e la sua natura precaria e finita, un’esistenza la cui fenomenologia ha la sua massima espressione nell’amore incondizionato, nella donazione indistinta di se stessi, nella “pietas”, financo nel sacrificio, un’ esistenza che via via dissolvendosi, per cause evidentemente endogene, ha il suo status ontologico per eccellenza nella memoria, nel pensiero, l’unico strumento con cui di fatto può tornare a vivere il nostro passato. Giunti al passo estremo, cosa ci resta se non il pensiero, cosa ci resta se non ripercorrere in un attimo tutta una vita?
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Antonio Monda insegna alla New York University, collabora al quotidiano «la Repubblica» e a «Vogue», su RaiNews24 tiene la rubrica 'Central Park West'. Ha pubblicato per Mondadori i romanzi Assoluzione (2008) e L'America non esiste (2012), i racconti Hanno preferito le tenebre (2010), il libro intervista con Ennio Morricone Lontano dai sogni (2010), Tu credi? e Il paradiso dei lettori innamorati (2013); per il MoMA The Hidden God (2003); per Fazi La magnifica illusione (2004); per Rizzoli Nella città nuda (2013). È il direttore artistico del festival letterario Le Conversazioni.
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