Ero sempre disponibile. Anzi, ero felice di liberarmi una giornata per accompagnare delegazioni in visita alla Città, dopo i rituali incontri in municipio. L’ho fatto tante volte negli anni passati, con gli ospiti italiani e stranieri. E non solo perché la visita guidata alle bellezze della città apparisse meglio conveniente se condotta da un amministratore civico, ma sopra tutto perché sentivo il piacere di farlo. Poi, quando altri impegni con l’estero hanno moltiplicato le occasioni, il caso mi capitava di frequente, specie durante la buona stagione.
Chi all’Aquila non era mai stato, la scopriva con grande meraviglia. Pochi, in effetti, s’attendevano una tale fioritura di bellezze, tanta ricchezza d’architetture, monumenti di tanta singolarità. Il più delle volte si comprendeva al volo che gli ospiti giungevano in città solo con qualche conoscenza, con l’attesa di trovarvi qualcosa degno di nota, eppure circoscritto al solito rinvenibile in provincia. Poi bastava dargli qualche cenno della singolare nascita della città, del suo legame con i castelli fondatori, del clima che vi si respirava nei primi tre secoli della sua storia, che mutavano parere e pensavano d’essere arrivati in una “capitale”, meglio ancora accompagnandoli a Collemaggio, o al Forte Spagnolo, o alle 99 Cannelle.
Era appena l’inizio. Perché poi L’Aquila non è solo quella dei monumenti insigni, ma è la città dei particolari, dei dettagli, delle curiosità nascoste nei suoi vicoli, negli sdruccioli, lungo le coste che arrancano alla grande piazza del Mercato. E’ la città, stupefacente ed inattesa, delle tante chiese, incredibile cornucopia per chi la scopre, dei tanti palazzi di magnificente fattura, scrigni di sorprese nei loro chiostri, nelle scalinate, negli archi, nelle modanature, nelle fogge delle finestre, negli stipiti e nei portali. Ma anche nel verde che dall’alto si può ammirare sopra la fuga dei tetti, con le chiome delle piante che spuntano sui profili delle case insieme a quei particolari camini aquilani che solo la nostra abitudine distratta non ci consente d’ammirare anch’essi come opere d’arte.
Appunto dopo la visita ai monumenti più noti s’iniziava il giro della città da scoprire nei suoi dettagli, dalle cisterne al centro dei cortili, alle bifore appena sotto il tetto, dalle ogive dei portoni, ai ricorrenti lapidei simboli del nome di Gesù, quel bernardiniano sole con IHS al centro, il cui originale è inciso sulla tavoletta che il Santo senese mostrava durante le sue predicazioni e che ora si conserva al museo del convento di San Giuliano.
Mi toccava spesso invitare a tener lo sguardo in alto, sorvolando sullo stato delle vie, spesso con qualche peccato di manutenzione. La città ha un territorio immenso - avvertivo - 477 mila ettari e 64 borghi, un caleidoscopio di centri abitati che solo di strade conta più di duemila chilometri, tutte da curare con le sempre scarse risorse del bilancio comunale. Più che la benevola comprensione, era il primato delle bellezze a coprire qualche guasto nella città.
Eppure mi logoravano alcuni sfregi dell’imbecillità umana, come i graffiti sui colonnati o lungo la scalinata che arranca a San Bernardino, le scritte sui muri con lo spray, le offese dei writers alle mura della cinta urbica, gli innamorati stupidi che scrivono banalità melense con la vernice, come i rifiuti che la sciatteria di qualche maleducato abbandona per strada e chi deve curare l’igiene urbana tarda a raccogliere. Eppure i richiami del bello superavano qualche bruttura.
Ricordo ancora lo stupore di Dan Fante - figlio del grande John e brillante scrittore egli stesso - quando, dopo una commossa visita a Collemaggio sostando davanti al mausoleo di Celestino V, salendo per via Fortebraccio, s’ebbe all’improvviso davanti la Basilica di San Bernardino, con la facciata splendente di sole, al tramonto. Un’emozione che gli tolse il respiro.
Ci mancano, ora, queste emozioni. Ogni erbaccia ci appare un insulto, ogni rovina una ferita profonda. Toccherà lavorare sodo, per anni. Ma ce la faremo. Sogno però, quando la calura è insolente nelle lande dove ora viviamo, quella frescura che si godeva rasentando le ombre delle vie aquilane, mentre il sole picchiava a mezzogiorno.
(dal numero Speciale a stampa, Luglio-Agosto 2010, “L’Aquila. Mi ritorni in mente …” , www.ilcapoluogo.it [2])
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