È accaduto tra sabato e domenica, intorno alle tre del mattino alla stazione di Nettuno, trenta chilometri a Sud di Roma. Tre ragazzi – dicono – di buona famiglia, uno di 29 anni, uno di 19 e l’altro di 16, al termine di una serata trascorsa a bere di locale in locale hanno varcato i cancelli incustoditi della stazione e hanno dato fuoco a un uomo, un senzatetto indiano che dormiva su una panchina.
L’uomo, 35 anni, ora ricoverato in gravi condizioni in un ospedale di Roma, ha raccontato ai Carabinieri che i tre si sono av
vicinati chiedendogli dei soldi. Lo hanno picchiato e si sono allontanati. Pochi minuti dopo sono ritornati, armati di una bomboletta di vernice spray e di una tanica di benzina con cui gli hanno cosparso gambe, mani, addome e collo. Dopodiché uno di loro ha preso un accendino e ha appiccato il fuoco. L’immigrato è vivo per l’intervento di un anonimo che ha chiamato il 112 denunciando l’accaduto e gli ha prestato i primi soccorsi.
I Carabinieri hanno rapidamente identificato i colpevoli. I tre ragazzi sono ora agli arresti – i due maggiorenni nel carcere di Velletri, il sedicenne nel centro di accoglienza e recupero “Virginia Agnelli” di Roma – con l’accusa di tentato omicidio.
“Volevamo divertirci”, ha affermato il più giovane dei tre, la cui deposizione è stata resa pubblica. “Trovare un barbone cui fare uno scherzo per chiudere la serata con qualcosa di forte. Avevamo bevuto tanto e ci eravamo fatti le canne. Era tardi e stavamo ancora girando in macchina. Cercavamo un barbone, non doveva essere per forza uno straniero. Se era romeno o negro non ci fregava niente”.
Non gli fregava niente. D’altronde, tutti bruciano più o meno allo stesso modo. Con buona pace di quelli che si sono affrettati a legare l’episodio all’ondata di razzismo che sta attraversando il Paese, qui la nazionalità, il colore della pelle, la religione, non c’entrano niente. L’ondata c’è, inutile negarlo, ma non ha niente a che vedere con ciò che è accaduto.
Uno degli inquirenti che hanno assistito all’interrogatorio e hanno poi parlato con la stampa descrive i tre ragazzi come tre volti qualsiasi, di quelli che è possibile incontrare tutte le sere a passeggio sul lungomare. Un altro li definisce teste vuote, lontane dalla politica, dal razzismo, dal tifo calcistico e da una qualsiasi forma di vero interesse. Eppure, in loro dev’esserci una qualche forma di curiosità. “Volevamo vedere quanto durava”, ha confessato infatti il sedicenne. “Ma poi pensavamo di spegnerlo”.
Proprio così: pensavano di “spegnerlo”. Come fosse un ceppo, o un tizzone da camino. Detesto la retorica dell’indignazione che immancabilmente riempie i giornali in certe occasioni, quindi non userò aggettivi per classificare l’episodio. Preferisco pensare che parli da sé.
Al contrario, il Presidente Fini e l’onorevole Veltroni si sono subito affrettati a condannare “l’inqualificabile episodio di razzismo”. Non mancando, il Segretario del Pd, di sottolineare come questo clima di intolleranza sia stato creato ad arte dalla maggioranza. Tutti i torti non li ha, se è vero che ci accingiamo ad aprire i Centri di identificazione e di espulsione per gli immigrati non in regola. Perché con l’immigrazione clandestina, e il ministro Maroni ha appena finito di dichiararlo con voce tonante dal pulpito di Avellino, non si può essere buonisti ma “cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Sarà. Ad ogni modo, il razzismo in questo caso non c’entra niente. Come la Camorra a Napoli ha il solo merito, peraltro dubbio, di offrire una spiegazione semplice e rassicurante: agitandone lo spauracchio si pone sotto gli occhi di lettori e spettatori un bersaglio facile, un capro espiatorio a portata di mano su cui sfogare ansie, frustrazioni e bisogni di sicurezza.
Sennonché, il fatto che la vittima dell’aggressione fosse un immigrato indiano è puramente accidentale. Che fosse romeno o negro non aveva importanza. Contava solo che fosse lì e che fosse pronto per essere sacrificato. Sacrificato, sì, ma sull’altare di che cosa?
Questo è il punto. Di che cosa? Della noia, e dell’incapacità di provare emozioni. Questo mi sembra l’aspetto più inquietante della vicenda, perché rispetto al razzismo l’apatia giovanile che sfocia in violenza è un avversario molto più sfuggente, impalpabile, difficile da affrontare. Si manifesta – come è successo a Nettuno – per crolli e muffe improvvise, come quelle dovuti all’acqua che scorre in silenzio nelle pareti, e contro la quale si ricorre a interventi strutturali. E questa è l’altra parte del problema. Contrastare un certo tipo di disagio richiederebbe analisi approfondite, progetti, politiche sociali e culturali a lungo termine: in fin dei conti, un’assunzione di responsabilità e una volontà reale che, duole dirlo, non ci sono.
Non c’è intellettuale o politico da talk show che non metta nei suoi discorsi sui giovani il vuoto dei valori, la crisi della famiglia, il relativismo etico, l’idelogia del branco, la deriva xenofoba. Eppure, da anni, la scuola non cambia, e nemmeno la televisione. Nessuna politica per la famiglia, né una per l’integrazione. Tutt’al più, qualche legge speciale per f
atti speciali. Forse chi ha il dovere di pensarle, le soluzioni strutturali, è chiuso in segreto a preparare una strategia di ripresa talmente perfetta da richiedere anni di elaborazione. Ma dubito.
Nel frattempo, però, sorgono interrogativi cui si dovrebbe rispondere. Fino a pochi anni fa i giovani in cerca di emozioni forti, come quelli di Nettuno, si davano al fumo e all’alcol. Poi sono venute le droghe da discoteca e le corse in macchina. Ora queste cose non bastano più. Per coloro che la cercano la trasgressione non abita più qui, e queste cose sono diventate l’iter qualunque di un sabato sera, debole quanto può essere debole la normalità. Il passo successivo è stata dunque la violenza. Il caso di Nettuno non è isolato: quattro mesi fa a Rimini è accaduta la stessa cosa, con le stesse dinamiche. Tre ragazzi di buona famiglia hanno dato fuoco a un barbone che dormiva su una panchina del parco. Anche loro per divertimento. Gli interrogativi che sorgono riguardano quindi il cosa succederà quando anche la violenza sarà diventata normale? Quale sarà il passo successivo? Che cosa dovremo aspettarci e cosa saremo disposti a tollerare?
Io non lo so, e ho anche un po’ paura di pensarci. Ma certo il vuoto dei valori non aiuta.